L’autonomia differenziata attua la Costituzione: nessun passo indietro!

L’autonomia differenziata attua la Costituzione: nessun passo indietro!

In questi giorni il tema dell’autonomia regionale è tornato, finalmente, al centro dell’attenzione e del dibattito pubblico. L’incontro di mercoledì tra il ministro degli Affari regionali Mariastella Gelmini e alcuni Presidenti delle Regioni del Nord, compreso quello del Piemonte – Alberto Cirio – è un buon segno per la ripresa del processo di regionalizzazione, previsto sulla Carta ma ad oggi mai veramente attuato.

La forma di Stato prevista dalla Costituzione, infatti, è quella del regionalismo differenziato. A dirla tutta, tende a un federo-regionalismo sul modello spagnolo, consentendo in principio il federalismo fiscale, poi epurato dalla riforma del Titolo V nel 2001. Eppure, l’attuazione della Costituzione in materia è andata sempre eccessivamente a rilento: prima per il decentramento amministrativo e la definizione delle entrate tributarie regionali, previsti dagli artt. 5 e 118 della Costituzione ma avvenuti soltanto con la legge 16 maggio 1970, n. 281; poi per l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario, facoltà prevista dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione così come introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, ma rimasto ancora inattuato. Il risultato è che, ad oggi, il regionalismo differenziato esiste già (tra Regioni a Statuto speciale) ed è previsto anche per quelle a Statuto ordinario, le quali ora comprensibilmente ne fanno richiesta.

Il ddl Gelmini interviene proprio sulla base dell’art. 116, terzo comma, trovando pertanto fondamento nella Costituzione e nel nostro ordinamento giuridico. Per questo motivo, ma non solo, le critiche e le resistenze alla legge proposta appaiono dunque come il tentativo di restare ancorati a un passato che oltre ad essere inefficiente, non rispecchia neppure l’intenzione dei padri costituenti. Si rileva facilmente la contraddizione di chi si oppone all’applicazione di un principio costituzionale (artt. 5 e 116 solo per citare i più significativi) facendo appello e richiamandosi ad altri. Ancora maggiore incoerenza è palesata nel registrare come le sollevazioni al ddl provengano in larga misura da quella sinistra che costituisce storicamente lo schieramento più propenso al decentramento amministrativo e al quale fanno riferimento la maggior parte dei partiti autonomisti, federalisti e indipendentisti d’Europa (vedasi in Catalogna, Paesi Baschi, Scozia…).

Entrando nel merito della legge, essa definisce le modalità procedurali e i principi generali per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il procedimento per l’approvazione delle intese tra Stato e Regione prevede che l’atto di iniziativa sia deliberato dalla Regione, la quale deve avere i conti in ordine – smentendo e scongiurando il paventato rischio che si possano avere 20 Regioni a Statuto speciale – e si articola in diversi passaggi, che comprendono il parere della Commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali. Tale procedura riconosce sia un grande coinvolgimento del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Regione, sia un ampio margine di intervento del Parlamento, con le Camere che deliberano infine a maggioranza assoluta.

Non trovano riscontro nella realtà, invece, le preoccupazioni circa frammentazioni e divari territoriali: da una parte, l’art. 3 della legge prevede come condizione necessaria per il trasferimento delle funzioni e delle corrispondenti risorse una previa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (i cosiddetti LEA) in materia di sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico locale, con riferimento alla spesa in conto capitale; dall’altra, l’art. 4 prevede che le risorse assegnate alle Regioni assieme alle funzioni siano determinate dalla spesa storica sostenuta dalle amministrazioni regionali. Significa che le Regioni che chiedono l’autonomia differenziata saranno incentivate ad efficientare l’esercizio delle funzioni trasferite e che al contempo non potrà avvenire il trasferimento dei fondi relativi alle materie per le quali non sono stati preventivamente definiti i LEA. Si prevede, inoltre, il superamento della spesa storica attraverso la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard. Tradotto: inizialmente, a nessuna Regione viene dato più di adesso e a nessuna viene tolto nulla, successivamente si crea una maggiore eterogeneità dei costi con relativi risparmi per lo Stato. Con la differenza che, gestendo a livello regionale i fondi, si potranno investire meglio sul territorio, garantendo gli stessi servizi ora in capo allo Stato con responsabilizzazione e un potenziale risparmio, liberando di conseguenza risorse economiche per altri interventi. Altro che “secessione dei ricchi”, si tratta piuttosto di applicare una visione federale che premia le Regioni virtuose e sia da stimolo alle altre per permettere un miglioramento del sistema.

L’auspicio, dunque, è che si proceda celermente e con coraggio su questo testo, apportando eventualmente sì qualche limatura migliorativa, ma mantenendo immutati gli elementi principali e le finalità, senza operare stravolgimenti né tantomeno fare passi indietro. L’hanno chiesto milioni di cittadini, chi attraverso i referendum del 2017 chi attraverso gli eletti negli enti locali. L’ha chiesto la Regione Piemonte a fine 2019 tramite un dossier inviato al Governo e con una deliberazione del Consiglio regionale del Piemonte contenente la richiesta del trasferimento di oltre 100 funzioni attualmente in capo allo Stato secondo tutte le 23 competenze previste dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Il processo è stato sostenuto dal Comune di Biella con l’approvazione, nel 2020, dell’ordine del giorno a favore dell’autonomia differenziata del Piemonte: un voto importante sia nell’ottica del coinvolgimento degli enti locali, così come previsto dalla legge, sia perché conferma la provenienza “dal basso” ovvero dai territori di tali richieste.

Saranno quindi i cittadini che pagano le tasse a valutare come vengono spesi i soldi da chi amministra quel territorio e, dall’altro lato, gli amministratori a spendere in modo accorto e mirato i fondi consapevoli di essere soggetti a una verifica doppia: statale e locale. Un passo importante verso il vero federalismo che significa maggiore efficienza dell’azione amministrativa. Un passo avanti. Nessun passo indietro!

Se una spia cinese che finanzia deputati Labour sembra essere un problema minore delle feste di Downing Street

Se una spia cinese che finanzia deputati Labour sembra essere un problema minore delle feste di Downing Street

Mentre il Party-gate, soprattutto tra i media, travolge il Premier britannico Boris Johnson, nel silenzio quasi totale il servizio di controspionaggio dell’MI5 ha scoperto una spia cinese – Christine Lee – che avrebbe stabilito legami con i parlamentari laburisti tramite “donazioni finanziarie” al fine di influenzare la politica inglese per conto del Partito Comunista Cinese.

Uno di loro avrebbe ricevuto 420.000 sterline e addirittura assunto il figlio della Lee, per la quale l’MI5 ha emesso un avviso individuale considerato rarissimo e quindi indice di una lunga indagine e grande preoccupazione.

Eppure le feste a Downing Street sembrano costituire un problema nazionale e politico ben più grave di quello che il Security Service ha definito il “compito di promuovere l’agenda del Partito comunista cinese” da parte di un avvocato – la Lee – il cui studio legale ha lavorato come consulente legale principale dell’ambasciata cinese a Londra, che ha dichiarato che il suo coinvolgimento con il Parlamento era quello di “rappresentare i cinesi del Regno Unito e aumentare la diversità”, e che ora è accusata di interferenza operando per conto del Fronte Unito, che si occupa di cooptare forze esterne al Partito comunista cinese utilizzandole come strumenti per l’acquisizione di segreti e il consolidamento e il monopolio permanente del potere.

Sapete qual è il problema più grave in tutto ciò? Pare che nel Regno Unito non ci siano leggi in vigore in grado di affrontare le accuse mosse alla Lee. Invece Johnson è già stato interrogato e dovrà difendersi dalle accuse e dagli attacchi ancora a lungo. Fin quando la Lee, probabilmente, sarà già tornata libera in Cina…

9 marzo 1981 – 9 marzo 2021: L’Unione Europea continua ad abbandonare le Nazioni e chi lotta per la libertà

9 marzo 1981 – 9 marzo 2021: L’Unione Europea continua ad abbandonare le Nazioni e chi lotta per la libertà

Nel giorno dell’anniversario della nascita di Bobby Sands, il Parlamento europeo decide di revocare l’immunità ai 3 eurodeputati catalani Carles Puigdemont, Toni Comín e Clara Ponsatí.

L’allodola spirito di libertà nel Bobby Sands Mural a Belfast

Nel giorno dell’anniversario della nascita di Bobby Sands, il Parlamento europeo decide di revocare l’immunità ai 3 eurodeputati catalani Carles Puigdemont (ex Presidente del Governo catalano), Toni Comín e Clara Ponsatí. Adesso il giudice spagnolo istruttore dell’inchiesta, Pablo Llarena, può inviare la richiesta di estradizione alle autorità belghe e scozzesi. Per Puigdemont, Comín e Ponsatí aumenta il rischio di raggiungere in carcere gli altri leader indipendentisti, a 7 dei quali – lo stesso giorno – il tribunale di sorveglianza ha revocato la semilibertà concessa dalla Generalitat catalana (il Governo catalano).

I primi due sono praticamente in esilio in Belgio dal 2017 – dove sono fuggiti per evitare le carceri spagnole nelle quali sono tutt’ora rinchiusi i membri dell’esecutivo indipendentista di Puigdemont, che ha convocato il referendum del 1 ottobre 2017 – la terza vive in Scozia, dove insegna presso l’Università di St Andrews.

Attenzione alle Nazioni citate: il fil rouge che lega Irlanda, Catalogna, Belgio e Scozia è infatti quello della libertà, dell’autodeterminazione dei popoli, dell’indipendenza. L’Irlanda è il maggiore esempio della lotta indipendentista, con l’Easter Rising del 1916 e fin dai tempi di Theobald Wolfe Tone, ben prima degli anni di Bobby Sands (quando diventa una lotta per la libertà e l’unità della Nazione). In Belgio il nazionalismo fiammingo, che è uno dei maggiori sostenitori della Catalogna e difatti non è raro vedere bandiere catalane appese fuori dalle case. In Scozia è attualissimo il dibattito su un secondo referendum per l’indipendenza dopo quello del 2014.

E poi c’è la Catalogna. E i catalani. Un popolo determinato, che spinge fortemente il mondo politico alle richieste indipendentiste in modo ancora più energico degli stessi politici catalani. Un popolo profondamente identitario, che viene però offuscato da una minoranza comunista e anarchica, estremista e rumorosa, spesso eccessivamente quanto inutilmente violenta (ma pacifista! E per questo inadeguata), e dalla stampa internazionale che dà ampio risalto agli scontri e agli atteggiamenti della piazza multietnica (ma anticapitalista!). Il vero popolo catalano, quello che si è presentato alle 5 di mattina alle urne quel 1 ottobre 2017 per far votare gli anziani prima delle cariche della polizia spagnola, quello che nelle ultime recenti elezioni catalane ha fatto segnare risultati record per i partiti indipendentisti (che per la prima volta hanno superato il 50% dei voti), rischia di non venire percepito all’estero, inducendo all’errore di etichettare gli indipendentisti catalani come estrema sinistra.

Così non è, perché se è vero che la quasi totalità dell’estrema sinistra catalana è pro-indipendenza, è anche vero che il peso elettorale non supera il 7%, quando i partiti sempre indipendentisti ma più moderati sommano oltre il 43% dei voti. Ma neanche la sinistra o il centrosinistra si dimostrano in realtà filo-indipendenza: “una vittoria della democrazia e dello Stato di diritto (…) sono molto soddisfatta per questo risultato” così Iratxe Garcìa Perez (PSOE), presidente del gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D) al Parlamento Europeo, ha commentato la revoca dell’immunità ai 3 eurodeputati catalani durante la conferenza stampa a Bruxelles nel corso della plenaria.

Tornano in mente le parole del laburista Don Concannon (Labour Party) quando, a un Bobby Sands in fin di vita nel carcere di Long Kesh, gli dice in faccia che il Partito laburista sostiene la politica del governo di Margaret Thatcher nei confronti dei prigionieri (politici) e che la sua morte sarà inutile. Quindi piano prima di far passare Democratici e Socialisti secolo come sostenitori dell’autodeterminazione e delle lotte per la libertà.

Ma, tornando alla decisione del Parlamento Europeo, sono inevitabili alcune riflessioni:

A che cosa serve l’Unione Europea se ritiene che la questione catalana sia solo un affare interno spagnolo da risolvere in Spagna?

Come può pensare di tendere ad una unificazione o anche solo ad una maggiore integrazione se poi abbandona le Nazioni dei Paesi membri, prostrandosi agli Stati più forti e delegando ad essi le decisioni scaricando ogni responsabilità? Che questa sia la prova che la cessione di sovranità è sbagliata? Che non solo non ci sia una leadership politica, ma che non ci siano neanche le condizioni affinché questo possa avvenire, perché i catalani sono sempre stati i più europeisti della penisola iberica, ma i partiti più europeisti si sono sempre rivelati i più anti-catalanisti?

D’altronde, anche Bobby Sands si sentì tradito dalle istituzioni europee e, a fine aprile 1981, dopo quasi due mesi di sciopero della fame, si rifiutò di incontrare i 4 membri della Commissione europea per i diritti umani, che era già intervenuta l’anno precedente ma senza risultato. Per motivi burocratici, tra l’altro, la Commissione sarebbe potuta intervenire non prima di 18 giorni. Ma 8 giorni dopo, Bobby Sands entrò in coma e in meno di 48 ore morì nella prigione di Long Kesh, dopo 66 giorni di sciopero della fame.

“Può darsi che io muoia, ma la Repubblica del 1916 non morirà mai. Avanti con la Repubblica e la liberazione del nostro popolo.”

Bobby Sands, carcere di Long Kesh, lunedì 9 marzo 1981.

Sono passati appena 40 anni, ma l’Unione Europea non è ancora pronta (o interessata) ad intervenire in difesa degli attivisti per le libertà e delle Nazioni.

Se Twitter può silenziare il Presidente degli USA pensa cosa potrebbe fare a te

Se Twitter può silenziare il Presidente degli USA pensa cosa potrebbe fare a te

Per il mio percorso di studi, non sono solito parlare di democrazia né – dall’altra parte – di una sua minaccia o di azioni anti-democratiche, in modo semplicistico. Ma che Twitter abbia bloccato in modo permanente il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump è un comportamento da regime totalitario. Lo è non solo perché mina il pluralismo nell’informazione e la possibilità di formarsi una propria opinione quanto più possibile liberamente, che per il giurista e politologo Norberto Bobbio è uno dei 6 universali procedurali, ovvero i principi necessari affinché un sistema politico possa essere considerato democratico, ma perché ha lo stesso fine di omogeneizzare il pensiero attraverso l’eliminazione di qualsiasi messaggio indesiderato, proprio come nell’URSS bolscevica e negli altri totalitarismi.

Il problema di fondo è sostanziale e pone delle questioni complesse che non mi pare siano state colte da tutti, dal momento che vedo esultare per l’azione alcuni dei maggiori difensori della democrazia.

Possiamo permettere che società private – ma con una importante funzione pubblica e che esercitano un controllo pressoché monopolistico – possano silenziare un capo di Stato? Ciò che è avvenuto è che l’amministratore delegato di un’azienda – dopo aver ricevuto una lettera da 350 dipendenti (su oltre 4.600) – ha deciso di sospendere l’account di Donald Trump – legittimato dal voto elettorale – arrivando persino a cancellare alcuni post dell’altro account, quello governativo dell’attuale Presidente in carica. Ma non è finita qui: contemporaneamente venivano eliminati decine di migliaia di profili di sostenitori di Trump, bloccato anche su Facebook, YouTube e Instagram, e l’applicazione alternativa Parler, dove alcuni sono migrati per poter comunicare senza censura, è stata prima oscurata, poi cancellata da Apple, Google e Amazon e infine messa offline. In questo modo, non vengono rimossi i contenuti considerati non conformi alle norme, ma si impedisce alla più alta carica pubblica della Nazione nonché ad una delle istituzioni più importanti del mondo di poter comunicare in qualunque social direttamente con il popolo senza i filtri della stampa e dei media. Se non è una limitazione – sia di chi informa che di chi riceve l’informazione – di diritti democratici e un vulnus democratico questo…

Dirsi d’accordo a tutto ciò significa accettare che un privato possa censurare lo Stato (il Presidente rappresenta lo Stato), che alcuni dipendenti di un colosso informatico possano impedire ad un Presidente eletto da milioni di cittadini di poter esprimere le proprie idee, che possa essere un servizio a stabilire se delle parole siano incitamento all’odio e non la giustizia, quindi che le norme di un’azienda siano al di sopra del legislatore, della legge statale e financo dei pilastri della democrazia. Norme, tra l’altro, che Trump non ha violato nei post incriminati. Contrariamente, infatti, sarebbero stati eliminati, invece sono soltanto stati contrassegnati come tante altre volte. L’accusa di aver incitato alla violenza non sta in piedi sia per i contenuti dei tweet, dove più volte ha invitato i manifestanti a restare pacifici, sia perché sarebbe avvenuta in diretta tv e quindi avrebbero dovuto oscurarlo su ogni media (anche se non ha mai incoraggiato ai disordini che sono successivamente avvenuti, anzi in chiusura di comizio ha esortato i suoi sostenitori a “marciare verso Capitol Hill per applaudire i nostri bravi deputati”). Ma allora, se le motivazioni sono le stesse di sempre, come mai Trump è stato sospeso permanentemente solamente adesso e non prima? Semplice: perché temevano che in quel caso sarebbe stato rieletto. Ma ora che il leader è indebolito è l’occasione giusta per impedirgli di fare opposizione democratica alla nuova presidenza con l’unico mezzo a disposizione per comunicare senza filtri (della stampa avversa) ai suoi elettori.

Il sultano turco Erdogan che per il suo disegno di islamizzazione della società turca ha riconvertito l’ex basilica cristiana di Santa Sofia in una moschea, il sanguinario Maduro che affama e reprime i venezuelani, l’ayatollah iraniano Ali Khamenei che invoca lo sradicamento di Israele definendolo un “cancro” e il dittatore nord-coreano Kim Jong-un possono invece continuare a postare indisturbati, senza che Twitter, Facebook e le altre multinazionali di Big Tech si degnino neanche di segnalare i loro messaggi. I fact checkers non si sognano nemmeno di controllare le proclamazioni e le teorie del governo cinese. Se gli account dell’ISIS non li avesse disattivati Anonymous, poi, sarebbero ancora perfettamente attivi, e chissà quanti ce ne sono ancora aperti… Si vede che Jack Dorsey e Mark Zuckerberg erano impegnati a leggere cosa scriveva Trump, oppure che non li ritengono inneggiare all’odio e alla violenza. Tutti ancora liberi di pubblicare, tranne Trump, trattato peggio dei dittatori e dei tagliagole dello Stato Islamico che, come noto, pone una grande cura (e molti fondi) alla propaganda proprio su questi social per fare proselitismo.

Ma il disprezzo e l’avversione nei confronti di Trump non può essere una giustificazione per la sua soppressione: oggi tocca a lui, ma domani potrebbe toccare a chiunque. Se hanno potuto fare questo al Presidente degli Stati Uniti, immaginatevi cosa possano fare a voi.

La ricchezza e l’identità dei territori possono essere apprezzate solo con il Federalismo

La ricchezza e l’identità dei territori possono essere apprezzate solo con il Federalismo

I liberi Comuni e le identità dei territori sono la ricchezza della civiltà del nostro Paese. Ad affermarlo è il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella nota per i 50 anni dalle prime elezioni regionali. Il Capo dello Stato ricorda poi che la Repubblica è nata “nel rifiuto del carattere autoritario e centralista dello Stato, inasprito dal regime fascista”, per cui “il principio di autonomia, delle Regioni e degli enti locali, è alle fondamenta della costruzione democratica, perché appartiene al campo indivisibile delle libertà e costituisce un regolatore dell’equilibrio costituzionale”.

Queste parole sono molto importanti in primis per gli amministratori locali e riportano al centro dell’attenzione lo storico tema dell’autonomia, che viaggia in parallelo con responsabilizzazione politica e buon governo del territorio, perché gli enti locali – e in particolare i Comuni – sono le istituzioni più vicine ai cittadini e che meglio possono risolvere i problemi. In questo periodo di emergenza coronavirus ne abbiamo avuto prova con le diverse risposte alle difficoltà causate dalla pandemia: mentre i territori si sono subito attivati per far fronte alle prime criticità, da Roma arrivavano indicazioni contrastanti, linee guida tardive, aiuti economici insufficienti e spesso dpi inutilizzabili, per non parlare dell’esperienza biellese della ripartenza delle aziende tessili…

La fine del lockdown riporta l’autonomia di grande attualità e la gestione del coronavirus ne ha accentuato la necessità. Le dichiarazioni del Presidente Mattarella lo confermano. Soltanto il ministro per il sud Giuseppe Provenzano continua a sostenere che vada rafforzato lo Stato, quello stesso Stato che in 9 anni ha tagliato 37 miliardi di euro alla sanità. Ma invece di apprezzare il lavoro fatto dalle Regioni, come in Piemonte dove i posti letto in terapia intensiva sono stati raddoppiati e quelli in semi-intensiva triplicati rispetto alla situazione che la giunta Cirio ha ereditato, il ministro Provenzano ritiene che si debbano “rafforzare i presidi centrali”: si riferisce a quelli che ci hanno consegnato mascherine non a norma o a quelli che hanno redatto disposizioni a volte incomprensibili e altre in contrasto tra loro?

In una intervista rilasciata su Il Messaggero mercoledì 10 giugno, lo stesso ministro torna sulla possibilità di rivedere il Titolo V della Costituzione ma, in contrasto con le parole del Presidente Mattarella, per introdurre una clausola di supremazia dello Stato. Al contrario, caro ministro, la riforma del Titolo V dovrà realizzare finalmente il regionalismo differenziato così come previsto dall’art. 116, terzo comma della Costituzione, nell’ottica del conseguimento della forma di Stato che da sempre si addice meglio al nostro Paese ma che non si è mai avuto il coraggio di istituire: il Federalismo. Un Federalismo non solo fiscale e amministrativo, ma anche politico e identitario: solo in questo modo si potrà davvero apprezzare la ricchezza di ogni territorio, dando piena attuazione all’art. 114 della Costituzione che stabilisce che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.

Bobby Sands: la forza dei suoi ideali l’hanno reso immortale

Bobby Sands: la forza dei suoi ideali l’hanno reso immortale

39 anni fa moriva nel carcere di Long Kesh, in Irlanda del Nord, il 27enne Bobby Sands.

Moriva dopo 66 giorni di sciopero della fame come protesta per richiedere lo status di prigioniero politico, abolito da Londra nel 1976, e per le condizioni nelle quali lui e altri giovani ragazzi erano incarcerati – senza prove e soprattutto senza processo – per effetto delle diplock courts, ovvero tribunali speciali senza giuria e presieduti da un giudice che non seguiva le procedure di legge che invece vengono seguite nell’ambito dei normali processi.

Moriva dopo oltre 4 anni di prigionia, attraversati da brutali pestaggi ad opera dei secondini nel cosiddetto Punishment Block, dove i prigionieri potevano restare fino a 30 giorni ricevendo solo una tazza di tè e della brodaglia come pasto, in un isolamento interrotto unicamente da ulteriori pestaggi, sempre tenuti nascosti all’interno degli H-Blocks (i famosi Blocchi H, cioè le carceri così chiamate per la loro forma).

Bobby Sands portò alla luce la situazione disumana nella quale erano tenuti centinaia di detenuti per il solo fatto di essere cattolici o repubblicani sospettati di partecipare a manifestazioni a sostegno di una Irlanda libera e unita. Riuscì a farlo scrivendo su pezzi di carta igienica e pacchetti di sigarette che fece uscire dal carcere con stratagemmi e durante l’ora di colloquio con i famigliari (1 ora al mese!) quello che divenne il suo diario, nel quale descrisse le 3 fasi di protesta – che caratterizzarono l’intero periodo di incarceramento – contro il mancato riconoscimento dello status di rifugiati politici oltreché per le brutali condizioni carcerarie: la blanket protest dal 1976, che consisteva nel rifiutarsi di indossare l’uniforme di prigioniero e nel coprirsi quindi solo con una coperta (le finestre non avevano vetri e nelle celle entrava la gelida aria invernale, la pioggia e la neve); la no-wash protest dal 1978, con la quale si rifiutavano di lavarsi e di rimuovere i buglioli e svuotandoli sul pavimento delle celle; infine il tremendo epilogo dello hunger strike, lo sciopero della fame (avvenuto in due fasi) prima nel 1980 e poi nel 1981, quando i detenuti fecero le cinque richieste che divennero note come le “Five demands”. Ad iniziare il secondo sciopero della fame fu proprio Bobby Sands, il 1 marzo 1981, che fu anche il primo a morire, seguito da altri 9 ragazzi.

Le conseguenze andarono ben oltre l’auspicato ascolto da parte del governo britannico: sebbene questo continuò a rifiutare qualsiasi trattativa con i prigionieri, ritenendo che la mediazione non rappresentasse la strada giusta da percorrere, si fece luce su una situazione che il governo inglese cercava di tenere nascosta e che se da una parte portò alla sollecitazione e al rafforzamento della lotta armata, dall’altro aprì la strada al “processo di pace” che culminò nell’aprile 1998 con la firma del cosiddetto Good Friday Agreement (Accordo del Venerdì Santo).

Ai funerali di Bobby Sands parteciparono oltre 100.000 persone e manifestazioni si tennero fino a Milano, Parigi e persino New York. La forza e la coerenza dei suoi ideali e della battaglia per l’autodeterminazione dei popoli l’hanno reso immortale simbolo di tutti coloro i quali sono in cerca della libertà.

Stiamo facendo il massimo, i parlamentari ci siano vicini

Stiamo facendo il massimo, i parlamentari ci siano vicini

Il Comune di Biella sta facendo tutto il possibile per affrontare questo difficile momento, a partire dal Sindaco Claudio Corradino, passando per tutti i membri della giunta fino ad arrivare ai consiglieri che ogni giorno, appunto, consigliano, propongono e offrono il loro contributo. Ci sentiamo per messaggio e al telefono, stando a casa il più possibile, ma vediamo come gli assessori siano sempre in prima linea e negli uffici a lavorare per il bene della città e dei Biellesi.

Le dirette puntuali del Sindaco offrono un importante momento di informazione e di rassicurazione, lo ringraziamo per questo.

Considerevoli azioni sono già state intraprese dall’amministrazione comunale: la consegna gratuita di cibo, medicinali, spesa e ricette mediche a casa di persone anziane e malate in collaborazione con Protezione Civile e Servizi sociali; l’apertura di un tavolo di crisi per adottare misure speciali per aziende biellesi per  avere la sospensione di finanziamenti, prestiti personali e leasing a tasso zero; l’attivazione del fondo unico di solidarietà e la concessione dei prestiti ai lavoratori in difficoltà per l’emergenza coronavirus. Inoltre, nei prossimi giorni verranno sanificate le strade e le vie della città.

Questo è il momento di restare uniti e anche la politica lo deve fare, evitando inutili polemiche e slanci individualistici. I biellesi da noi si aspettano fatti e non sterili critiche, perciò l’augurio è che i parlamentari ci stiano vicini e si dimostrino attenti alle necessità del territorio, ma anche alle sue ricchezze, come la start up tecnologica biellese che con una piattaforma di e-learning innovativa dà la possibilità alle scuole di fare lezioni a distanza in tempi brevissimi, incontrata nei giorni scorsi in VII Commissione parlamentare dall’On. Patelli.

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Con la delegazione esteri di Lega Giovani in Francia per incontrare Marine Le Pen!

Con la delegazione esteri di Lega Giovani in Francia per incontrare Marine Le Pen!

Sabato 16 marzo una delegazione di Lega Giovani si è recata in Savoia per incontrare la leader del Rassemblement National Marine Le Pen e i giovani di Génération Nation. Da Biella erano presenti il coordinatore di Lega Giovani Biella, Alessio Ercoli, e Davide Superbo di Cossato.

I giovani con Marine Le Pen al meeting di La Rochette

La giornata ha visto i giovani della Lega impegnati sin dal mattino in un incontro con i giovani di Génération Nation, l’organizzazione giovanile che fa capo al Rassemblement National, nel Comune di Apremont. Nel corso della mattinata il numeroso gruppo di giovani ha ricevuto anche la visita della Presidente Marine Le Pen. Nel pomeriggio i giovani rappresentanti della Lega hanno potuto partecipare al meeting del partito a La Rochette, assieme ai giovani di Génération Nation e ad altri 600 francesi. La grande partecipazione all’evento non è altro che la risposta dei cittadini francesi all’attenzione posta dal Rassemblement nei confronti dei piccoli centri, delle zone rurali e montane e delle comunità locali.

La delegazione di Lega Giovani con Marine Le Pen ad Apremont

«Siamo davvero onorati dell’invito da parte dei nostri alleati francesi – dichiara Alessio Ercoli, Responsabile Esteri della Lega Giovani Piemonte – ed è stato un onore partecipare al meeting del Rassemblement National con Marine Le Pen e Nicolas Bay. Con il movimento giovanile di Génération Nation c’è un legame fortissimo che è andato strutturandosi in mesi di incontri che hanno rafforzato la coesione tra giovani che hanno un’idea di Europa diversa da quella portata avanti, con evidente fallimento, dal 1979 ad oggi. Questo fine settimana abbiamo coronato un cammino iniziato l’anno scorso e rafforzato da manifestazioni, eventi, incontri e soggiorni nell’arco alpino. Le montagne, infatti, uniscono i popoli e rinsaldano i legami. Siamo convinti che una solida collaborazione tra sovranisti europei possa difendere i confini soprattutto esterni dell’Unione europea, preservando i nostri territori e i nostri concittadini.

In questi mesi abbiamo posto le basi per cambiare un’Unione europea che tutti dicono di voler cambiare ma nessuno, oltre alla Lega, specifica come dovrebbe mutare, quali principi e quali norme dovrebbero essere riviste. Nessun movimento è in grado di offrire una valida alternativa che porti ad un cambiamento reale. In questi mesi la Lega sta lavorando per costituire un’alleanza per una nuova maggioranza nel Parlamento europeo che porti a un conseguente rinnovamento radicale della Commissione Europea. 

Il discorso di Marine Le Pen è stato esemplare. La critica a questo modello di Europa, schiava delle banche e dei mercati, è stata molto ferma. Un’Europa che doveva essere luogo di prosperità, ma che invece è caratterizzata dalla disoccupazione altissima, dalla precarietà, dall’instabilità e dalle immigrazioni di massa. Un’Europa che potrà salvarsi solo ponendo una maggiore attenzione al localismo, nella convinzione che la vera democrazia passi anche per la democrazia di prossimità e dunque dalla valorizzazione dell’autonomia.

Coloro che parlano di isolamento della Lega, in realtà temono soltanto che la struttura messa in piedi per soffocare i popoli e garantire il potere agli stessi gruppi possa subire un’inversione per merito ed in favore di chi fino ad oggi ha subito le politiche di una Unione europea sempre più lontana dai territori e dagli europei. Il 26 maggio, con l’aiuto dei cittadini che stanno finalmente prendendo coscienza dell’inganno di chi gli prometteva una prosperità che mai è arrivata, avremo l’occasione di portare una ventata di novità e di buonsenso anche in Europa!» 

Lega Giovani e Génération Nation assieme a Marine Le Pen

Mezzo milione di euro dal Governo alle scuole biellesi per interventi di adeguamento alla certificazione antincendio

Mezzo milione di euro dal Governo alle scuole biellesi per interventi di adeguamento alla certificazione antincendio

Dal Governo sono in arrivo 496.022,74 euro per gli interventi di adeguamento alla certificazione antincendio delle scuole biellesi.

A beneficiare del contributo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca saranno l’IIS Quintino Sella (70.000 €), l’IIS Cossatese e Vallestrona (70.000 €), l’IIS Gae Aulenti (70.000 €), la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado del Comune di Valle Mosso (50.000 €), la scuola dell’infanzia e la scuola primaria del Comune di Viverone (50.000 €), la scuola dell’infanzia e la scuola primaria del Comune di Mottalciata (50.000 €), la scuola dell’infanzia centro, nido centro del Comune di Valle Mosso (50.000 €), la scuola dell’infanzia di Crocemosso e la scuola primaria di Crocemosso (50.000 €) e la scuola dell’infanzia di Cerrione (36.022,74 €).

Queste risorse dimostrano l’attenzione del Governo alla sicurezza nelle scuole. Sono un segno di concretezza atteso da tempo e che grazie al lavoro del MIUR e della Lega costituisce una prima tranche di fondi per permettere alle scuole di ottenere la certificazione antincendio. Complimenti al ministro dell’Istruzione Bussetti, che sta mostrando una grande sensibilità nei confronti degli studenti e che sta procedendo anche con una collaborazione con gli enti locali volta ad evitare intoppi di natura tecnica e burocratica.

Maturità: con la nuova valutazione si premia maggiormente il merito

Maturità: con la nuova valutazione si premia maggiormente il merito

Con le modifiche introdotte dal ministro Bussetti per la maturità, tra le quali quelle che comportano che i crediti del triennio finale varranno ora 40 punti anziché i precedenti 25 sui 100 totali e che le correzioni degli scritti saranno valutate su una griglia nazionale e omogenea, si attua una svolta fortemente voluta dalla Lega per premiare il merito degli studenti.

Da anni ci battiamo per modificare quei criteri che causavano un contrasto con i risultati degli INVALSI tra le Regioni del Nord e le altre, in particolare quelle del Sud. Si tratta dei dati forniti dal ministero negli anni precedenti e ripresi da tutti i quotidiani nazionali, con editoriali ed interventi volti a porre fine ad una penalizzazione degli studenti del Nord. Si pensi che il Piemonte è una delle ultime Regioni nella classifica dei diplomati con 100 e 100 e lode, mentre è ai primi posti – assieme alle altre Regioni del Nord-Ovest – nei rapporti delle prove INVALSI. Per le Regioni del Sud vale invece l’esatto contrario e, vista l’importanza predominante del voto di maturità, l’abbiamo sempre ritenuta una sproporzione inaccettabile.

L’altr’anno c’è stato il record di 74 diplomati tra 100 e 100 e lode in provincia di Biella: un risultato eccellente per studenti che se lo sono davvero meritato. Ecco perchè con questa svolta si norma uno squilibrio penalizzante per gli studenti del biellese, del Piemonte e non solo, senza svantaggiare quelli del Sud che si impegnano veramente, ma anzi concedendo meno possibilità ai furbetti di scavalcare o eguagliare – immeritatamente – chi il 100 se lo suda per anni sui libri.