L’autonomia differenziata attua la Costituzione: nessun passo indietro!

L’autonomia differenziata attua la Costituzione: nessun passo indietro!

In questi giorni il tema dell’autonomia regionale è tornato, finalmente, al centro dell’attenzione e del dibattito pubblico. L’incontro di mercoledì tra il ministro degli Affari regionali Mariastella Gelmini e alcuni Presidenti delle Regioni del Nord, compreso quello del Piemonte – Alberto Cirio – è un buon segno per la ripresa del processo di regionalizzazione, previsto sulla Carta ma ad oggi mai veramente attuato.

La forma di Stato prevista dalla Costituzione, infatti, è quella del regionalismo differenziato. A dirla tutta, tende a un federo-regionalismo sul modello spagnolo, consentendo in principio il federalismo fiscale, poi epurato dalla riforma del Titolo V nel 2001. Eppure, l’attuazione della Costituzione in materia è andata sempre eccessivamente a rilento: prima per il decentramento amministrativo e la definizione delle entrate tributarie regionali, previsti dagli artt. 5 e 118 della Costituzione ma avvenuti soltanto con la legge 16 maggio 1970, n. 281; poi per l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario, facoltà prevista dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione così come introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, ma rimasto ancora inattuato. Il risultato è che, ad oggi, il regionalismo differenziato esiste già (tra Regioni a Statuto speciale) ed è previsto anche per quelle a Statuto ordinario, le quali ora comprensibilmente ne fanno richiesta.

Il ddl Gelmini interviene proprio sulla base dell’art. 116, terzo comma, trovando pertanto fondamento nella Costituzione e nel nostro ordinamento giuridico. Per questo motivo, ma non solo, le critiche e le resistenze alla legge proposta appaiono dunque come il tentativo di restare ancorati a un passato che oltre ad essere inefficiente, non rispecchia neppure l’intenzione dei padri costituenti. Si rileva facilmente la contraddizione di chi si oppone all’applicazione di un principio costituzionale (artt. 5 e 116 solo per citare i più significativi) facendo appello e richiamandosi ad altri. Ancora maggiore incoerenza è palesata nel registrare come le sollevazioni al ddl provengano in larga misura da quella sinistra che costituisce storicamente lo schieramento più propenso al decentramento amministrativo e al quale fanno riferimento la maggior parte dei partiti autonomisti, federalisti e indipendentisti d’Europa (vedasi in Catalogna, Paesi Baschi, Scozia…).

Entrando nel merito della legge, essa definisce le modalità procedurali e i principi generali per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il procedimento per l’approvazione delle intese tra Stato e Regione prevede che l’atto di iniziativa sia deliberato dalla Regione, la quale deve avere i conti in ordine – smentendo e scongiurando il paventato rischio che si possano avere 20 Regioni a Statuto speciale – e si articola in diversi passaggi, che comprendono il parere della Commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali. Tale procedura riconosce sia un grande coinvolgimento del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Regione, sia un ampio margine di intervento del Parlamento, con le Camere che deliberano infine a maggioranza assoluta.

Non trovano riscontro nella realtà, invece, le preoccupazioni circa frammentazioni e divari territoriali: da una parte, l’art. 3 della legge prevede come condizione necessaria per il trasferimento delle funzioni e delle corrispondenti risorse una previa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (i cosiddetti LEA) in materia di sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico locale, con riferimento alla spesa in conto capitale; dall’altra, l’art. 4 prevede che le risorse assegnate alle Regioni assieme alle funzioni siano determinate dalla spesa storica sostenuta dalle amministrazioni regionali. Significa che le Regioni che chiedono l’autonomia differenziata saranno incentivate ad efficientare l’esercizio delle funzioni trasferite e che al contempo non potrà avvenire il trasferimento dei fondi relativi alle materie per le quali non sono stati preventivamente definiti i LEA. Si prevede, inoltre, il superamento della spesa storica attraverso la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard. Tradotto: inizialmente, a nessuna Regione viene dato più di adesso e a nessuna viene tolto nulla, successivamente si crea una maggiore eterogeneità dei costi con relativi risparmi per lo Stato. Con la differenza che, gestendo a livello regionale i fondi, si potranno investire meglio sul territorio, garantendo gli stessi servizi ora in capo allo Stato con responsabilizzazione e un potenziale risparmio, liberando di conseguenza risorse economiche per altri interventi. Altro che “secessione dei ricchi”, si tratta piuttosto di applicare una visione federale che premia le Regioni virtuose e sia da stimolo alle altre per permettere un miglioramento del sistema.

L’auspicio, dunque, è che si proceda celermente e con coraggio su questo testo, apportando eventualmente sì qualche limatura migliorativa, ma mantenendo immutati gli elementi principali e le finalità, senza operare stravolgimenti né tantomeno fare passi indietro. L’hanno chiesto milioni di cittadini, chi attraverso i referendum del 2017 chi attraverso gli eletti negli enti locali. L’ha chiesto la Regione Piemonte a fine 2019 tramite un dossier inviato al Governo e con una deliberazione del Consiglio regionale del Piemonte contenente la richiesta del trasferimento di oltre 100 funzioni attualmente in capo allo Stato secondo tutte le 23 competenze previste dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Il processo è stato sostenuto dal Comune di Biella con l’approvazione, nel 2020, dell’ordine del giorno a favore dell’autonomia differenziata del Piemonte: un voto importante sia nell’ottica del coinvolgimento degli enti locali, così come previsto dalla legge, sia perché conferma la provenienza “dal basso” ovvero dai territori di tali richieste.

Saranno quindi i cittadini che pagano le tasse a valutare come vengono spesi i soldi da chi amministra quel territorio e, dall’altro lato, gli amministratori a spendere in modo accorto e mirato i fondi consapevoli di essere soggetti a una verifica doppia: statale e locale. Un passo importante verso il vero federalismo che significa maggiore efficienza dell’azione amministrativa. Un passo avanti. Nessun passo indietro!

9 marzo 1981 – 9 marzo 2021: L’Unione Europea continua ad abbandonare le Nazioni e chi lotta per la libertà

9 marzo 1981 – 9 marzo 2021: L’Unione Europea continua ad abbandonare le Nazioni e chi lotta per la libertà

Nel giorno dell’anniversario della nascita di Bobby Sands, il Parlamento europeo decide di revocare l’immunità ai 3 eurodeputati catalani Carles Puigdemont, Toni Comín e Clara Ponsatí.

L’allodola spirito di libertà nel Bobby Sands Mural a Belfast

Nel giorno dell’anniversario della nascita di Bobby Sands, il Parlamento europeo decide di revocare l’immunità ai 3 eurodeputati catalani Carles Puigdemont (ex Presidente del Governo catalano), Toni Comín e Clara Ponsatí. Adesso il giudice spagnolo istruttore dell’inchiesta, Pablo Llarena, può inviare la richiesta di estradizione alle autorità belghe e scozzesi. Per Puigdemont, Comín e Ponsatí aumenta il rischio di raggiungere in carcere gli altri leader indipendentisti, a 7 dei quali – lo stesso giorno – il tribunale di sorveglianza ha revocato la semilibertà concessa dalla Generalitat catalana (il Governo catalano).

I primi due sono praticamente in esilio in Belgio dal 2017 – dove sono fuggiti per evitare le carceri spagnole nelle quali sono tutt’ora rinchiusi i membri dell’esecutivo indipendentista di Puigdemont, che ha convocato il referendum del 1 ottobre 2017 – la terza vive in Scozia, dove insegna presso l’Università di St Andrews.

Attenzione alle Nazioni citate: il fil rouge che lega Irlanda, Catalogna, Belgio e Scozia è infatti quello della libertà, dell’autodeterminazione dei popoli, dell’indipendenza. L’Irlanda è il maggiore esempio della lotta indipendentista, con l’Easter Rising del 1916 e fin dai tempi di Theobald Wolfe Tone, ben prima degli anni di Bobby Sands (quando diventa una lotta per la libertà e l’unità della Nazione). In Belgio il nazionalismo fiammingo, che è uno dei maggiori sostenitori della Catalogna e difatti non è raro vedere bandiere catalane appese fuori dalle case. In Scozia è attualissimo il dibattito su un secondo referendum per l’indipendenza dopo quello del 2014.

E poi c’è la Catalogna. E i catalani. Un popolo determinato, che spinge fortemente il mondo politico alle richieste indipendentiste in modo ancora più energico degli stessi politici catalani. Un popolo profondamente identitario, che viene però offuscato da una minoranza comunista e anarchica, estremista e rumorosa, spesso eccessivamente quanto inutilmente violenta (ma pacifista! E per questo inadeguata), e dalla stampa internazionale che dà ampio risalto agli scontri e agli atteggiamenti della piazza multietnica (ma anticapitalista!). Il vero popolo catalano, quello che si è presentato alle 5 di mattina alle urne quel 1 ottobre 2017 per far votare gli anziani prima delle cariche della polizia spagnola, quello che nelle ultime recenti elezioni catalane ha fatto segnare risultati record per i partiti indipendentisti (che per la prima volta hanno superato il 50% dei voti), rischia di non venire percepito all’estero, inducendo all’errore di etichettare gli indipendentisti catalani come estrema sinistra.

Così non è, perché se è vero che la quasi totalità dell’estrema sinistra catalana è pro-indipendenza, è anche vero che il peso elettorale non supera il 7%, quando i partiti sempre indipendentisti ma più moderati sommano oltre il 43% dei voti. Ma neanche la sinistra o il centrosinistra si dimostrano in realtà filo-indipendenza: “una vittoria della democrazia e dello Stato di diritto (…) sono molto soddisfatta per questo risultato” così Iratxe Garcìa Perez (PSOE), presidente del gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D) al Parlamento Europeo, ha commentato la revoca dell’immunità ai 3 eurodeputati catalani durante la conferenza stampa a Bruxelles nel corso della plenaria.

Tornano in mente le parole del laburista Don Concannon (Labour Party) quando, a un Bobby Sands in fin di vita nel carcere di Long Kesh, gli dice in faccia che il Partito laburista sostiene la politica del governo di Margaret Thatcher nei confronti dei prigionieri (politici) e che la sua morte sarà inutile. Quindi piano prima di far passare Democratici e Socialisti secolo come sostenitori dell’autodeterminazione e delle lotte per la libertà.

Ma, tornando alla decisione del Parlamento Europeo, sono inevitabili alcune riflessioni:

A che cosa serve l’Unione Europea se ritiene che la questione catalana sia solo un affare interno spagnolo da risolvere in Spagna?

Come può pensare di tendere ad una unificazione o anche solo ad una maggiore integrazione se poi abbandona le Nazioni dei Paesi membri, prostrandosi agli Stati più forti e delegando ad essi le decisioni scaricando ogni responsabilità? Che questa sia la prova che la cessione di sovranità è sbagliata? Che non solo non ci sia una leadership politica, ma che non ci siano neanche le condizioni affinché questo possa avvenire, perché i catalani sono sempre stati i più europeisti della penisola iberica, ma i partiti più europeisti si sono sempre rivelati i più anti-catalanisti?

D’altronde, anche Bobby Sands si sentì tradito dalle istituzioni europee e, a fine aprile 1981, dopo quasi due mesi di sciopero della fame, si rifiutò di incontrare i 4 membri della Commissione europea per i diritti umani, che era già intervenuta l’anno precedente ma senza risultato. Per motivi burocratici, tra l’altro, la Commissione sarebbe potuta intervenire non prima di 18 giorni. Ma 8 giorni dopo, Bobby Sands entrò in coma e in meno di 48 ore morì nella prigione di Long Kesh, dopo 66 giorni di sciopero della fame.

“Può darsi che io muoia, ma la Repubblica del 1916 non morirà mai. Avanti con la Repubblica e la liberazione del nostro popolo.”

Bobby Sands, carcere di Long Kesh, lunedì 9 marzo 1981.

Sono passati appena 40 anni, ma l’Unione Europea non è ancora pronta (o interessata) ad intervenire in difesa degli attivisti per le libertà e delle Nazioni.

Bobby Sands: la forza dei suoi ideali l’hanno reso immortale

Bobby Sands: la forza dei suoi ideali l’hanno reso immortale

39 anni fa moriva nel carcere di Long Kesh, in Irlanda del Nord, il 27enne Bobby Sands.

Moriva dopo 66 giorni di sciopero della fame come protesta per richiedere lo status di prigioniero politico, abolito da Londra nel 1976, e per le condizioni nelle quali lui e altri giovani ragazzi erano incarcerati – senza prove e soprattutto senza processo – per effetto delle diplock courts, ovvero tribunali speciali senza giuria e presieduti da un giudice che non seguiva le procedure di legge che invece vengono seguite nell’ambito dei normali processi.

Moriva dopo oltre 4 anni di prigionia, attraversati da brutali pestaggi ad opera dei secondini nel cosiddetto Punishment Block, dove i prigionieri potevano restare fino a 30 giorni ricevendo solo una tazza di tè e della brodaglia come pasto, in un isolamento interrotto unicamente da ulteriori pestaggi, sempre tenuti nascosti all’interno degli H-Blocks (i famosi Blocchi H, cioè le carceri così chiamate per la loro forma).

Bobby Sands portò alla luce la situazione disumana nella quale erano tenuti centinaia di detenuti per il solo fatto di essere cattolici o repubblicani sospettati di partecipare a manifestazioni a sostegno di una Irlanda libera e unita. Riuscì a farlo scrivendo su pezzi di carta igienica e pacchetti di sigarette che fece uscire dal carcere con stratagemmi e durante l’ora di colloquio con i famigliari (1 ora al mese!) quello che divenne il suo diario, nel quale descrisse le 3 fasi di protesta – che caratterizzarono l’intero periodo di incarceramento – contro il mancato riconoscimento dello status di rifugiati politici oltreché per le brutali condizioni carcerarie: la blanket protest dal 1976, che consisteva nel rifiutarsi di indossare l’uniforme di prigioniero e nel coprirsi quindi solo con una coperta (le finestre non avevano vetri e nelle celle entrava la gelida aria invernale, la pioggia e la neve); la no-wash protest dal 1978, con la quale si rifiutavano di lavarsi e di rimuovere i buglioli e svuotandoli sul pavimento delle celle; infine il tremendo epilogo dello hunger strike, lo sciopero della fame (avvenuto in due fasi) prima nel 1980 e poi nel 1981, quando i detenuti fecero le cinque richieste che divennero note come le “Five demands”. Ad iniziare il secondo sciopero della fame fu proprio Bobby Sands, il 1 marzo 1981, che fu anche il primo a morire, seguito da altri 9 ragazzi.

Le conseguenze andarono ben oltre l’auspicato ascolto da parte del governo britannico: sebbene questo continuò a rifiutare qualsiasi trattativa con i prigionieri, ritenendo che la mediazione non rappresentasse la strada giusta da percorrere, si fece luce su una situazione che il governo inglese cercava di tenere nascosta e che se da una parte portò alla sollecitazione e al rafforzamento della lotta armata, dall’altro aprì la strada al “processo di pace” che culminò nell’aprile 1998 con la firma del cosiddetto Good Friday Agreement (Accordo del Venerdì Santo).

Ai funerali di Bobby Sands parteciparono oltre 100.000 persone e manifestazioni si tennero fino a Milano, Parigi e persino New York. La forza e la coerenza dei suoi ideali e della battaglia per l’autodeterminazione dei popoli l’hanno reso immortale simbolo di tutti coloro i quali sono in cerca della libertà.

L’UE intervenga in Catalunya per dimostrare di essere davvero l’Europa dei Popoli!

L’UE intervenga in Catalunya per dimostrare di essere davvero l’Europa dei Popoli!
Puigdemont Exiled
L’arresto di Carles Puigdemont è solo l’ultimo atto di un processo anti-democratico portato avanti dal governo spagnolo con noncuranza del voto dei cittadini e del diritto internazionale. Infatti, l’ex Presidente del governo catalano, costretto ai tempi a fuggire in Belgio per evitare un’accusa di ribellione, seppur contestata da cattedratici e legislatori spagnoli, era impossibilitato a tornare in patria per riottenere l’incarico del Parlamento dopo la riconferma degli indipendentisti alle ultime elezioni.
In un periodo nel quale i referendum vengono considerati sbagliati, da rifare o non compresi nel momento in cui i cittadini votano per l’opzione avversa alla volontà delle élite globali, si può comprendere il mancato rispetto del referendum catalano e quindi il mancato rispetto della democrazia. Ma nella stessa epoca nella quale ci si riempie la bocca di belle parole, di diritti, di democrazia, di pace e di concordia, permettere l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine per impedire ai catalani di votare e poi incarcerare scientemente tutti i possibili futuri candidati alla presidenza è spregevole e vituperevole. L’esilio forzoso di politici costretti a fuggire all’estero, gli ultimi 25 arresti tra i quali il Presidente designato Turull ed il Presidente legittimo Puigdemont, i 4 prigionieri che permangono delle carceri spagnole da 4 mesi e gli 87 feriti negli scontri di domenica notte sono l’ennesima prova di una UE che sta andando nel verso opposto a quello che propaganda in maniera vergognosa e falsa.
Lo Stato spagnolo perseguitando gli indipendentisti catalani democraticamente eletti e rifiutando il dialogo si sta dimostrando ancora legato alle vecchie logiche e politiche proprie del franchismo.
Come delegazione Esteri della Lega in Piemonte chiediamo che l’Unione Europea intervenga immediatamente per il rilascio dei politici arrestati e per il ripristino della democrazia.
La stessa Unione Europea che interviene celermente per sanzionare la Russia di Putin, ma che per adesso, si sta rendendo complice delle politiche anti-democratiche di Madrid.
Noi siamo stati e saremo sempre al fianco dei nostri fratelli Catalani in questa dura battaglia di libertà e democrazia.
Alessio Ercoli, Giacomo Perocchio
(Delegazioni Esteri Mgp e Lega – Salvini Premier Piemonte)

100 anni dalla nascita di Gianfranco Miglio, scienziato della politica lungimirante ma trascurato

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Come studente di scienza della politica ed indomabile federalista, sento il dovere di ricordare uno dei politologi più lucidi e lungimiranti ma allo stesso tempo più sottovalutati e trascurati d’Europa. Gianfranco Miglio nasceva 100 anni fa. Oggi si parla poco di lui, persino nelle Università, dove è stato docente di dottrine politiche dal 1948 e preside della facoltà di Scienze politiche dal 1959 per i 30 anni seguenti. In un mondo in cui se ti schieri politicamente rischi di perdere opportunità anziché venire apprezzato, di perdere attenzione ed attenzioni invece di guadagnare stima, Miglio paga a mio avviso la sua parentesi con la Lega Nord di Umberto Bossi, demonizzata e tacciata di ogni infamia: incomprensibile come un professore del suo calibro potesse essere l’ideologo di quel partito. Soliti preconcetti. Eppure il suo pensiero è quello della Lega Nord, le sue parole risuonano fino ad oggi. Il contributo che ha dato alla causa leghista è immenso, ha forgiato la nostra ideologia (e qui parlo da attivista) e per questo paga un vergognoso silenzio sul contributo che ha dato alla scienza politica italiana (con Passerin d’Entrèves e Schmitt) e mondiale (Weber). Il suo impegno per un federalismo post-moderno “ex uno plures”, in contrasto con quello moderno dell’epoca che era “e pluribus unum”, si riverbera nello scenario politico europeo attuale (Catalogna, Scozia, Corsica, Vojvodina, Veneto…).

Da federalista, la sua fu anche una battaglia antifascista, iniziata assieme a Tommaso Zerbi nella rivista “Il Cisalpino“. Miglio ha fornito una rilettura del periodo fascista partendo dalla inadeguatezza ed incapacità di elaborazione di un ordinamento unitario per la penisola; e anche qui, da piemontese, la questione mi tocca da vicino.

Lui diceva che “la vittoria del federalismo è la vittoria del contratto sul patto politico”. Le istituzioni politiche sono in perenne trasformazione, come ricordava Stefano Bruno Galli in un bellissimo ricordo dello “scienziato del federalismo” di qualche giorno fa.

Credo che Miglio meriti un’attenzione maggiore, sia dal punto di vista politologico sia da quello dell’impegno politico, perchè le sue lezioni ed i suoi spunti invece di rischiare di venire sotterrati devono essere studiati maggiormente. Sia da chi la politica vuole studiarla, sia da chi la vuole fare.

Cosa ci insegna la strepitosa vittoria di Pè a Corsica

Cosa ci insegna la strepitosa vittoria di Pè a Corsica

La strepitosa vittoria dei nazionalisti corsi di Pè a Corsica ci insegna 3 cose:
1) Il cleavage (la frattura) maggiore attuale si conferma tra local e global, tra l’autonomismo tendente all’indipendentismo e il globalismo tendente al mondialismo.
2) Quello che definii qualche settimana fa “treno dell’indipendenza” aggiunge un “vagone”: dopo Scozia, Kurdistan iracheno, Republika Srpska, Vojvodina e la locomotiva Catalunya, ora la Corsica.
3) Per arrivare all’indipendenza serve avere un tessuto socio-politico saldo, sicuro e fedele. Per questo i vincitori, Gilles Simeoni e Jean-Guy Talamoni, due veri lupi politici, propongono per ora l’amnistia per i «prigionieri politici», l’ufficialità della lingua corsa e il riconoscimento dello status di residente corso per opporsi alla compravendita di terreni sull’isola ed evitare speculazioni immobiliari. Con queste misure, andrebbero a sanare i maggiori problemi dell’isola e ad aumentare i consensi, costituendo la base per passare allo step successivo. D’altronde, le modifiche rivoluzionarie avvengono per transizioni. Bisogna sapere crearne le condizioni…

Puigdemont in Belgio si gioca il tutto per tutto

Puigdemont in Belgio si gioca il tutto per tutto

 

Il Presidente catalano Carles Puigdemont, lunedì 30 ottobre ovvero il giorno in cui il procuratore di Madrid ha formalizzato le accuse di ribellione, sedizione e malversazione per lui e altri 14 membri del governo per aver “creato una crisi istituzionale culminata nella dichiarazione unilaterale di indipendenza” venerdì 27 ottobre, è partito in auto per Marsiglia da dove ha preso un volo per Bruxelles con i quattro membri del governo Joaquim Forn, Meritxell Borrás, Dolors Bassa e Antoni Comín.

Anche se Madrid non è preoccupata dal di fatto esilio di Puigdemont, perché ciò che interessava era che i politici indagati non entrassero negli uffici se non per prendere gli oggetti personali in poco tempo e che Puigdemont non si avvicinasse al Palau de la Generalitat, farebbe bene ad esserlo per la strategia incompresa che il Presidente ha messo in atto e continua a portare avanti.

Infatti, dopo aver passato la palla a Madrid e avendo fatto passare il governo di Rajoy come violento e anti-democratico, che non rispetta l’esito del referendum e dunque la volontà popolare ed è il solo a non voler il dialogo, Puigdemont non ha risposto alla domanda di Rajoy sulla dichiarazione di indipendenza e con l’approvazione da parte del Parlament della risoluzione che istituisce la Repubblica catalana – con uno stratagemma retorico per dichiarare l’indipendenza senza dichiararla (pena l’arresto) – a voto segreto di modo da rendere impossibile identificare i votanti a favore e quindi per quel motivo da arrestare, è arrivato fino a lunedì senza una accusa formale, e appena è stata ufficializzata ha scelto l’unica alternativa possibile al rischio di passare decenni in carcere. Da notare che, dopo l’approvazione della Ley de Transitoriedad che proclamava la Repubblica catalana, la palla passava al Govern per l’applicazione e l’inizio ufficiale del processo costituente. Non si è fatto in tempo, e questo ha permesso a Puigdemont di passare guai peggiori.

La vera domanda è: ma il nuovo Govern che scaturirà dalle elezioni del 21 dicembre – se avesse di nuovo una maggioranza indipendentista – potrà portare avanti (e forse a termine) il processo iniziato dopo il referendum del 1-O, anche se il Tribunal Constitucional annullerà la risoluzione sull’indipendenza, ai sensi della Ley de Transitoriedad (sempre che non venga dichiarata incostituzionale anch’essa), quindi iniziare il processo costituente con la società civile come previsto dalla stessa legge, oppure si vedrà impossibilitato a causa dell’annullamento e quindi dell’invalidità dei provvedimenti? Sempre fermo restando che il 155 resterà in vigore anche dopo le elezioni, se Madrid vorrà.

Ma ora che si trova a Bruxelles – quasi sicuramente dopo contatti con Theo Francken, Segretario di Stato belga per l’asilo e l’immigrazione e membro dell’Alleanza Neo-Fiamminga – Puigdemont si gioca il tutto per tutto, ad iniziare dal riproporre la causa catalana come europea, internazionalizzandola e portandola vicino alle istituzioni europee, con un possibile processo fuori dai confini spagnoli e la conferenza stampa nella “capitale” dell’UE che sottolineano l’intenzione di legittimare l’indipendentismo catalano in ambito europeo e la richiesta all’UE di prendere una posizione ed esprimersi. Insomma, con la conferenza stampa nella “capitale” dell’UE, Puigdemont rende la causa catalana una questione europea.

Puigdemont potrebbe addirittura candidarsi alle elezioni del 21 dicembre, ma solo se non sarà in galera; e in questo gioca un ruolo fondamentale Paul Bekaert, avvocato con ufficio in Belgio, a Tielt, che ha seguito casi di ETA e IRA, il quale contatto secondo la mia opinione potrebbe essere stato passato a Puigdemont da Urkullu: dato che contatti tra Urkullu e “presos” dell’ETA ci sono stati, è possibile che Bekaert lo conosca e abbia passato il contatto a Puigdemont. D’altronde, il governo basco si è speso molto per cercare una mediazione tra il governo spagnolo e quello catalano, con il quale ha e ha avuto ancora più contatti. Si può pensare che il nome di Bekaert sia passato per le relazioni ETA-Urkullu-Puigdemont.

Tornando all’ipotesi della ri-candidatura di Puigdemont, resa possibile dal fatto che dal momento in cui gli verrà notificato l’ordine di arresto europeo avrà 60 giorni di tempo prima dell’estradizione – il che gli permette di arrivare alle elezioni del 21 dicembre come uomo libero e dunque candidabile (come dichiarato anche dal Ministro dell’Interno spagnolo) – non ci sarebbe alternativa migliore, politicamente e simbolicamente, del Presidente che ha permesso lo svolgimento del referendum, portato avanti l’indipendenza sino di fatto a sancirla, per questo perseguitato e costretto all’esilio oltre che ad essere destituito da Madrid e non sollevato dal Parlamento catalano. Per operato ed emotività sarebbe il candidato giusto per rivincere le elezioni e dimostrare che l’indipendentismo è davvero la posizione predominante in Catalunya, ora più di prima. Il suo ritorno sarebbe desiderato non solo dagli indipendentisti ma anche da chi male sopporterà il commissariamento di Soraya Saenz de Santamaria, e potrebbe creare attorno a lui una spinta al voto fondamentale per spingere l’elettorato all’ennesima votazione (questa volta si spera senza violenza). Anche con il 155 ancora attivo, l’autonomia della Comunità Autonoma sarà sempre in vigore, come lo è adesso, e si potranno cercare nuove vie all’indipendenza. Più o meno compartite.

Continueremo a lottare anche per te, Doddore!

Sapete chi è Doddore Meloni?

Doddore Meloni se n’è andato come Bobby Sands. Sognando la libertà e chiedendo l’autodeterminazione della sua terra e il diritto ad autogovernarsi della sua comunità. Doddore è morto dopo 50 giorni di sciopero della fame mentre era detenuto nel carcere di Uta. È morto – come ricorda Carlo Lottieri su “Il Foglio” – non per le due condanne di evasione fiscale e false attestazioni, bensì perché, “da presidente del movimento separatista Maris, non ha mai riconosciuto alcuna legittimità alla presenza dello Stato italiano in Sardegna. Si tratta di tesi discutibili? Certamente”, ma come molte altre, per le quali grazie alla libertà di manifestazione del pensiero, sancita dalla Costituzione all’art. 21 comma 1, si è appunto liberi e non si viene messi in carcere, viene garantita la vita e non procurata la morte. Per riprendere Lottieri: “L’ossessione giacobina per l’unità d’Italia ha prodotto un’altra vittima e ora c’è solo da sperare che il suo sacrificio possa, quanto meno, scuotere qualche coscienza.”

“Uno Stato che lascia un uomo morire in carcere per questo, non merita il mio rispetto. Nè il mio riconoscimento” – dichiara Alessio Ercoli, coordinatore provinciale del Movimento Giovani Padani Biella – “Noi siamo quei giovani che non si riconoscono in uno Stato nel quale si chiede una morte dignitosa per Riina e nessuno si preoccupa della vita e della morte di una persona veramente dignitosa, uno Stato nel quale nel 2014 è stata votata una legge che prevede il risarcimento ai detenuti reclusi in “condizioni inumane” salvo poi lo stesso Stato voltarsi dall’altra parte verso i detenuti reclusi ingiustamente. Gli indipendentisti, gli uomini liberi, quelli che perseguono una società diversa, continueranno a lottare anche per te, Doddore!”

Se la democrazia diventa reato

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“Comportarsi da democratico significa comportarsi da delinquente?”. Questa è la domanda che si pone Artur Mas, 129esimo Presidente della Generalitat de Catalunya, dopo essere stato accusato e indagato dal Tribunale Superiore per “disobbedienza”. La sua colpa? Aver concesso ai cittadini catalani di poter votare un referendum per decidere il loro futuro. I due quesiti vertevano sulla futura possibilità di fare della Catalunya uno stato federale della Spagna oppure uno stato indipendente dalla Spagna (c’era anche una terza ipotesi, in caso di doppio no, che era quella di mantenere lo status quo). Più dell’80% dei circa 2 milioni di partecipanti si sono espressi per una futura indipendenza della Catalunya, il che è un dato molto significativo tenendo anche presente che il tribunale costituzionale spagnolo dichiarò il 25 marzo 2014 l’illegittimità del voto, fattore che potrebbe aver spinto alcuni “indipendentisti tiepidi” a non andare a votare, sapendo che il risultato non sarebbe stato comunque accettato dal governo spagnolo. Però ciò che è emerso il 9 novembre 2014 è un messaggio forte e chiaro alla Spagna del centralista PP di Rajoy, al quale non dev’essere proprio andata giù quella richiesta popolare e democratica. Così come evidentemente non dev’essere andata giù a tutte quelle forze che in Europa si oppongono ogni giorno strenuamente ai sentimenti patriottici e di autodeterminazione dei popoli che stanno diventando sempre più forti. Ma il motivo di questo aumento di “voglia di indipendenza” ha le sue origini proprio nel modo in cui queste (future) Nazioni vengono trattate, usate, sbeffeggiate e silenziate dagli Stati di cui fanno parte, che invece di sedersi a un tavolo e trattare su alcune condizioni, rispondono sempre più ferocemente nella loro miopia improntata all’unione adesso, per sempre e senza dialogo.

Parlando con alcune persone, ieri, alla manifestazione di solidarietà e appoggio a Mas fuori dal Tribunale Superiore di Giustizia della Catalunya, molti dei quali tra l’altro si sono presi un giorno di ferie o hanno saltato l’università per essere li a dimostrare il loro attaccamento all’ideologia e alla speranza, un signore mi ha detto: “se la Spagna non ci avesse trattato così, ora non saremmo qui”, cioè qui a chiedere e protestare per avere maggiore libertà e uguaglianza.

Pensavano di soffocare le richieste dei cittadini appellandosi a un tribunale, invece ieri è arrivata l’ennesima dimostrazione democratica della volontà del popolo catalano. Ho visto, anche in tv, accuse agghiaccianti contro Mas, i politici indipendentisti e perfino i cittadini, che hanno dell’incredibile e sono totalmente false e infondate e gridano perciò allo scandalo e alla ricerca della verità: come fa un referendum ad essere antidemocratico? Come fa una manifestazione popolare ad essere antidemocratica? Come si può affermare che concedere la possibilità di scelta, mediante le urne, al popolo che ti ha eletto e che governi sia un fatto illegale e addirittura di disobbedienza? Disobbedienza a chi? Come ha detto Mas, per questa scelta politica egli deve rendere conto solo al popolo che governa, non a un tribunale.

Eppure, nel chiaro disegno (almeno europeo) di far tacere ed estirpare ogni sussulto di libertà, autonomia e rivendicazione di diritti, si è pronti a tutto. Anche a ricorrere alle sentenze pur di fermare da una parte i promotori e gli artefici delle concretizzazione delle istanze popolari (il proprio popolo), e dall’altra di far cambiare idea ai cittadini quasi arrivando alle minacce e sicuramente alle falsità. Ma la risposta migliore l’ha data la piazza: davanti al tribunale già un’ora prima erano radunate migliaia di persone di tutte le età che cantavano e sventolavano bandiere. Come se non bastasse, la presenza di più di 400 sindaci provenienti da tutta Catalunya hanno dato ancora più forza – assieme a tutte le forze politiche più importanti di questa futura Nazione – al messaggio: un’idea non si ferma a colpi di sentenze, soprattutto se sono non solo ingiuste ma anche scientificamente aberranti. E dico scientificamente poichè chi dichiara che il voto catalano è illegittimo, il giorno dopo si supera (e supera anche la razionalità) affermando che la manifestazione davanti al Tribunale è stata una minaccia e l’appoggio dei cittadini al presidente un atto antidemocratico. Forse Rajoy, nella sua cappa di rabbia e figuracce, non si ricorda bene (se mai l’ha saputo) qual è il significato di democrazia (o almeno uno dei tanti che si attribuiscono a questa parola).

Siamo alla follia. Quando il popolo si esprime contrariamente a ciò che lo stato centralista – dopo innumerevoli tentativi di minacce e lavaggi del cervello – pretende, e non si hanno più strumenti politici per contrastare le loro richieste e le loro decisioni, si passa alle falsità e al ridicolo. Per fortuna però ho visto un popolo forte, determinato, istruito e pronto per proclamare l’indipendenza della Catalunya!