Come studente di scienza della politica ed indomabile federalista, sento il dovere di ricordare uno dei politologi più lucidi e lungimiranti ma allo stesso tempo più sottovalutati e trascurati d’Europa. Gianfranco Miglio nasceva 100 anni fa. Oggi si parla poco di lui, persino nelle Università, dove è stato docente di dottrine politiche dal 1948 e preside della facoltà di Scienze politiche dal 1959 per i 30 anni seguenti. In un mondo in cui se ti schieri politicamente rischi di perdere opportunità anziché venire apprezzato, di perdere attenzione ed attenzioni invece di guadagnare stima, Miglio paga a mio avviso la sua parentesi con la Lega Nord di Umberto Bossi, demonizzata e tacciata di ogni infamia: incomprensibile come un professore del suo calibro potesse essere l’ideologo di quel partito. Soliti preconcetti. Eppure il suo pensiero è quello della Lega Nord, le sue parole risuonano fino ad oggi. Il contributo che ha dato alla causa leghista è immenso, ha forgiato la nostra ideologia (e qui parlo da attivista) e per questo paga un vergognoso silenzio sul contributo che ha dato alla scienza politica italiana (con Passerin d’Entrèves e Schmitt) e mondiale (Weber). Il suo impegno per un federalismo post-moderno “ex uno plures”, in contrasto con quello moderno dell’epoca che era “e pluribus unum”, si riverbera nello scenario politico europeo attuale (Catalogna, Scozia, Corsica, Vojvodina, Veneto…).
Da federalista, la sua fu anche una battaglia antifascista, iniziata assieme a Tommaso Zerbi nella rivista “Il Cisalpino“. Miglio ha fornito una rilettura del periodo fascista partendo dalla inadeguatezza ed incapacità di elaborazione di un ordinamento unitario per la penisola; e anche qui, da piemontese, la questione mi tocca da vicino.
Lui diceva che “la vittoria del federalismo è la vittoria del contratto sul patto politico”. Le istituzioni politiche sono in perenne trasformazione, come ricordava Stefano Bruno Galli in un bellissimo ricordo dello “scienziato del federalismo” di qualche giorno fa.
Credo che Miglio meriti un’attenzione maggiore, sia dal punto di vista politologico sia da quello dell’impegno politico, perchè le sue lezioni ed i suoi spunti invece di rischiare di venire sotterrati devono essere studiati maggiormente. Sia da chi la politica vuole studiarla, sia da chi la vuole fare.
Mancando ancora, dopo ben 24 ore, i risultati ufficiali, si può fare tuttavia un’analisi con le primarie PD precedenti basandosi sui risultati ufficiosi, che non dovrebbero comunque discostarsi di molto da quelli definitivi quando arriveranno.
Massimo Franco scrive sul CorSera sulle Primarie del PD: “La partecipazione è stata superiore alle previsioni”. O si sono tenuti molto bassi, o avevano una paura micidiale…
Dopo 16 ore di silenzio, si scopre infatti che il PD ha perso 966.223 votanti e Renzi 611.943 voti rispetto al 2013, passando da 1.895.332 a 1.283.389 voti che se sono superiori al milione prefissato, sono comunque il peggior risultato per un segretario nei 10 anni di storia delle primarie PD. A Renzi interesserà, e forse rivendicherà, di essere il segretario PD eletto con la maggior percentuale, ma dall’altra parte è stato anche il segretario eletto con meno voti, che si conformano sempre di più al dato dell’affluenza, a sostegno delle critiche di un partito personale mosse nei suoi confronti.
Nel 2007 Veltroni era stato eletto segretario con 2.694.721 voti; nel 2009 Bersani ne prese molti meno, ovvero 1.623.239; Renzi nel 2013 torno a far segnare numeri alti con i suoi 1.895.332 voti ma diventati appena 1.283.389 nel 2017, soltanto 4 anni e 1024 giorni di governo dopo.
L’esperienza di governo, tra l’altro il quarto esecutivo più longevo della storia della Repubblica, ridimensiona ulteriormente la scarsa performance di Renzi, perchè se nel 2013 i voti sono stati comunque tanti rispetto a quelli di Bersani di 4 anni prima e nonostante il calo dell’affluenza, questa volta al sostanziale calo di voti per Renzi (unico segretario riconfermato e, in verità, unico a ricandidarsi alla segreteria PD) segue un ancora più importante calo di votanti che per la prima volta fa scendere l’affluenza sotto quota 2 milioni. Il calo, infatti, è sicuramente dovuto in buona parte alla delusione dell’attività politica di Renzi, che se nel 2013 ha fatto il pieno trascinato dalla fiducia, dai media e da una gestione sottotono di Letta (con segretario Epifani) dopo il fallimento di Bersani, ora subisce il peso dei quasi 3 anni come Presidente del Consiglio, sotto quei riflettori ora non più così benevoli, davanti al popolo che dopo le promesse si aspetta(va) una diversità, un’innovazione e una concretezza mai arrivate davvero. Un segnale, quindi, esattamente opposto.
Il confronto tra calo dell’affluenza e calo dei voti a Renzi rende bene l’idea della fondatezza delle preoccupazioni di alcuni esponenti del PD circa una personalizzazione del partito, che si manifesta al momento delle primarie, dove sembra che vadano a votare sempre di più i renziani mentre al quasi milione di voti perso nell’affluenza non fa un contro-bilanciamento neanche timido il voto verso una delle due alternative, anzi, come si vede nel grafico sottostante, i voti di Renzi si avvicinano sempre di più ai voti totali.
Se questo sia sintomo di una forte leadership di Renzi o di una deriva personalistica (anche causata dalla mancanza di alternative forti) ce lo diranno il tempo e ce lo potranno dire al massimo esponenti del partito, ma i dati parlano chiaro e, previsioni (volutamente?!) pessimiste a parte, confermano che queste primarie sono state un duro flop sia per Renzi sia, soprattutto, per il Partito Democratico.
Geert Wilders è un politico olandese, leader del Partito per la Libertà (PVV), costretto a spostarsi unicamente con una scorta dopo essere stato più volte minacciato di morte per le sue posizioni contro l’Islam, candidato alle elezioni legislative del 15 marzo con un programma a metà tra il progressismo e il nazionalismo soprattutto per quanto riguarda l’adozione di una moneta olandese, l’uscita dell’Unione Europea e una forte stretta sull’immigrazione clandestina, con l’espulsione prevista per gli immigrati che delinquono ed il divieto dell’uso del burqa e della macellazione halal islamica.
Su queste proposte si può essere d’accordo o meno, ma non si può essere d’accordo sul fatto che Wilders non possa più partecipare ad eventi ed incontri pubblici della campagna elettorale dopo che i servizi olandesi hanno scoperto che un agente di origini marocchine, incaricato alla bonifica dei luoghi dove Wilders teneva i comizi, condivideva informazioni riservate ad un gruppo di criminali marocchino-olandesi.
Troppo spesso si parla di democrazia valicando di molto il confine elastico della sua definizione che, sebbene non sia unanime, è racchiusa molto bene negli universali procedurali di Bobbio. Uno di essi è la condizione di pluralismo politico, che prevede che “tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi il più liberamente possibile cioè una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro “. Ora viene da chiedersi come possano tutti gli olandesi formarsi potenzialmente una opinione in modo libero, se uno dei candidati in corsa è impossibilitato nel poter svolgere comizi e qualsiasi incontro pubblico, non solo perchè non tutti fanno uso di internet, ma soprattutto perchè il fatto di non svolgere attività pubbliche incide di molto sul peso nelle notizie e di conseguenza sulle possibilità di uscire sui media tradizionali, che restano ancora i più seguiti.
Non si tratta quindi solo del diritto di espressione, peraltro già messo alle strette con la condanna a Wilders per aver chiesto agli avventori di un bar se volessero più o meno marocchini in Olanda (dove su 17 milioni di abitanti, 1 milione è immigrato), ma bensì di un cardine sul quale si basa la democrazia a cui fa riferimento la scienza politica e non quella di un manifestante pro Clinton.
Per questo una sua vittoria, che sembra destinata ad essere un primo posto senza vincere di bersaniana memoria, potrebbe riportare ad un percorso democratico perlomeno di peso nella competizione elettorale, perchè se pare impossibile che Wilders diventi capo del governo, è sicuro che nella sua posizione (i sondaggi danno il suo partito in vantaggio sugli oltre 31 in corsa) dovrà svolgere incontri pubblici in vista della formazione del nuovo governo e di conseguenza riacquisire l’eguaglianza di possibilità di intervento e non essere più in una condizione di diseguaglianza rispetto agli altri candidati.
Se si vuole cercare un vulnus alla democrazia nei Paesi Bassi, bisogna focalizzare l’attenzione su questo aspetto.
La Francia vuole costruire una barriera a Calais, al confine con la Gran Bretagna, che pagherà per la sua costruzione.
Subito il parallelismo va alla proposta del Repubblicano Donald Trump in America – lì pagherà il Messico – oppure all’Ungheria governata da Orbàn (Fidesz), o alla Spagna del Partido Popular, o ancora all’Austria sempre più vicina al FPO di Strache e Hofer. Come abbiamo visto però, in questo caso i giornalisti non hanno dato la notizia come se fosse una proposta obbrobriosa, non l’hanno criticata come una decisione razzista-nazista-xenofoba-fascista, non hanno fatto cenno ai diritti umani nella loro patria, nessun partito è stato messo alla forca, nessun politico insultato.
Cosa diranno i pacifisti internazionalisti della sinistra nostrana? Si stracceranno le vesti contro il Presidente Hollande, Socialista come loro, o per uguale appartenenza politica taceranno? Una pesante critica sarebbe coerente, altrimenti la smettano di attaccare solo gli avversari in questi temi, perchè dimostrerebbero di non essere interessati alla questione in sè ma solo al becero scontro politico e ai voti.
Sei mesi fa, sempre di notte, stavo commentando le elezioni generali spagnole. Ero, come sono ora, in sessione esami, ma a differenza di oggi ero a Barcellona e seguivo le elezioni e lo scrutinio con un interesse, un’emozione ed un coinvolgimento ancora maggiori. Ho avuto, allora, la fortuna di trovarmi sul “campo da gioco”, di parlare con la gente, confrontarmi con spagnoli (e catalani) e addirittura partecipare alla campagna elettorale sia agli incontri pubblici sia attivamente. Stasera, invece, ho seguito un po’ sui programmi tv spagnoli che riuscivo a prendere, tipo La1 e TVE24h, ho contattato un mio amico spagnolo, conosciuto durante l’Eramsus a Barcellona e ho letto alcune impressioni soprattutto dalla Catalunya. Queste sono le mie:
Innanzitutto bisogna trovare le cause di questo secondo turno improprio, perchè avvenuto ben 6 mesi dopo il primo: la legge elettorale, strutturata per un bipolarismo e per favorire il bipolarismo stesso; l’incapacità delle forze politiche di scendere a patti perchè da un lato i loro leader non sono abituati e dall’altro sono impauriti dal perdere voti; il rifiuto del Presidente in funzioni Rajoy (PP) di provare l’investitura e il tentativo invece fallito di Sanchez (PSOE) a causa del mancato appoggio di Podemos che ha impedito il raggiungimento dei 176 scranni necessari.
L’analisi dei voti di questa seconda tornata invece ci dice che per prima cosa i vincitori sono Mariano Rajoy e il suo PP, ma che continuano a non raggiungere la maggioranza assoluta di 176 scranni e quindi dovranno allearsi con qualcuno. Le ipotesi sono il PSOE di Sanchez, che ha fatto una cosa incredibile visti i sondaggi, ovvero mantenere il suo partito al primo posto nel centro-sinistra spagnolo, davanti a Podemos dato secondo i sondaggi al 25% e che chiude invece al 21%, mentre il PSOE dato al 21% chiude al 23%; Podemos appunto ma che sembra destinato a rimanere fuori dal governo sia per il fatto di fare paura data la sua percentuale e la sua anti-politica basata molto sull’anti-casta, sia perchè il PSOE, dopo il mancato patto di governo e per non rischiare il sorpasso evitato in questa tornata ma in extremis, non lo vuole e potrebbe avere la forza per tenerlo fuori; infine Ciudadanos, che perde a sorpresa molto non come percentuale (-0,88%) ma come eletti (8 in meno), sempre per colpa della legge elettorale e della ripartizione e allocazione dei seggi. In Catalunya ERC e CDC mantengono gli scranni di dicembre, rispettivamente 8 e 9, ma che sommati a PSOE e Podemos (quest’ultimo favorevole e proponente di un referendum per l’indipendenza della Catalunya) raggiungerebbero solo quota 173, 3 in meno di quelli necessari per formare un governo, ovvero la metà dei 350 totali che formano il Congreso de los diputados (Parlamento). Nei Paesi Baschi il PNV perde uno scranno (da 6 a 5) e questo causa l’impossibilità incredibile di una coalizione PP-C’s-PNV-CC (Canarie) a causa di un solo seggio: 175/176. La politica non è fatta solo di numeri, però sembra che l’unica alleanza possibile sia il classico governo PP-PSOE, magari potenziato con C’s, e con l’astensione di qualche gruppo politico. Però bisogna anche tenere presente che per il PSOE entrare in un governo a guida PP del solito Rajoy dandogli pieno appoggio potrebbe causare il suo suicidio politico. Fatto sta che sono da escludere nuove elezioni sia perchè gli spagnoli potrebbero disertare stanchi ed irritati, sia perchè non è concepibile per la Spagna – abituata ad andare a dormire sapendo chi governerà dalla mattina seguente – stare per un anno senza governo. Se ora l’affluenza ha tenuto (-3,4%, da 73,2% a 69,8%), forse perchè era la prima volta che si votava in una seconda elezione, forse perchè erano ormai passati 6 mesi dal primo turno – molto di più delle amministrative o delle presidenziali di qualche altro Paese, che causano un’inevitabile crollo della partecipazione, ci sono però stati significativi spostamenti di voti: approssimativamente il PP guadagna rispetto le elezioni del 20 dicembre 2015 690.000 voti (passando da 123 a 137 seggi), il PSOE ne perde 106.000 (da 90 a 85 seggi), Ciudadanos 377.000 (da 40 a 32 seggi) e Unidos Podemos, ovvero Podemos alleatosi questa volta con Izquierda Unida, se si sommano anche tutti i vari pariti delle comunità autonome, sua espressione, perde ben oltre un milione di voti (ma la coalizione ottiene 71 seggi, come la somma dei 69 di Podemos e 2 di Unidad Popular nella quale era presente IU del 2015), come prova che una somma di partiti non corrisponde ad una somma numerica di voti… e neanche di seggi, che dipende in larga parte alla legge elettorale, mentre il risultato dipende da molti fattori molto lontani dall’aritmetica.
I flussi di voto hanno, secondo me, visto confluire i voti di C’s al PP a causa del tentativo dei primi di fare un governo con il PSOE di Sanchez, che ha messo allerta gli elettori di centrodestra, e anche a causa della tattica di Rajoy di puntare sul prendere il voto utile, perchè il PP avrebbe avuto più opportunità di formare un governo e di certo avrebbe avuto più peso politico durante le trattative. Dal centro di C’s non è molto probabile che siano scappati voti al PSOE e ancora meno a Podemos, mentre sembrerebbe che la coalizione Podemos-IU non abbia portato i frutti sperati anzi abbia fatto un enorme buco nell’acqua, perchè al di là dei seggi che rimangono gli stessi e quindi fanno venire meno l’utilità della coalizione, si è perso un milione di voti, e sembra che il PSOE alla fine abbia retto, anzi abbia vinto la sua battaglia personale contro e nella sinistra (+1,5% dagli avversari di Unidos Podemos). Però il risultato negativo in Andalucia (storica roccaforte socialista) e la mappa tutta azzurro PP indicano che forse una piccola trasfusione c’è stata, sempre in nome del voto utile, dopo aver visto che Sanchez non era riuscito a formare il governo. Inoltre la Brexit può aver causato uno stop all’avanzata Podemos-IU in favore invece questa volta proprio del PSOE, dove si sarebbe diretto un elettorato più moderato, più spaventato e più anziano ovvero abituato a votare i partiti tradizionali e sentendosi più al sicuro con loro. I due partiti storici rimangono primo e secondo, con il PP che addirittura guadagna voti (+691.000 voti, +4,3%, +14 seggi), e il PSOE che all’inizio dello scrutinio sembrava incrementare seggi ma che alla fine comunque non perde così tanti voti, soprattutto se paragonati a quelli che perdono assieme Podemos e IU.
In queste condizioni e con un PP che vince in tutte le Comunità autonome tranne nei Paesi Baschi e in Catalunya – che vanno tra l’altro non a partiti indipendentisti ma a Unidos Podemos – il Presidente in funzioni uscente Mariano Rajoy si candida di nuovo e più forte rispetto a dicembre 2015 alla conferma. L’aumento di voti e di riflesso di scranni mette PSOE e Podemos in una situazione per la quale se non si riuscisse a formare un governo la colpa ricadrebbe su di loro, vista la differenza di scranni in Parlamento e il distacco in percentuali rispetto al primo partito, che danno a Rajoy sia i numeri sia la legittimità per, questa volta sì, provare l’investitura. Durante il discorso a risultati ormai certi, Rajoy ha subito fatto capire ciò e confermato quello che diceva in campagna elettorale, ovvero che il partito che arriva primo inizia le trattative e il processo di investitura, mentre Albert Rivera di Ciudadanos si è affrettato a tagliarsi un posto nel tavolo delle trattative ma anche alla possibilità di tagliarsi fuori se i fini e le decisioni prese non andranno bene al suo partito; senza però esimersi dall’avanzare un’altra critica al sistema elettorale che a suo dire ha penalizzato il suo partito e che oggettivamente è confermato dai dati e dai voti che servono a C’s per fare un eletto in confronto agli altri partiti (100.000 a C’s, 57.000 al PP). Sanchez e Pablo Iglesias (Podemos) erano chiaramente delusi dal risultato, ma dopo essersi fatti la guerra tra loro per la leadership del centro-sinistra per decidere chi sarebbe stato il Primo Ministro in caso di vittoria, Iglesias dovrebbe esserlo di più perchè ha perso contro sondaggi, speranze e un pizzico di sua supponenza. Se El Pais dice che Sanchez si allontana in tutti i casi da una possibile investitura, che la sinistra retrocede e che Ciudadanos è la principale vittima di questo secondo voto, ora tocca al PP e a Rajoy trovare un patto per governare finalmente la Spagna, dopo 6 mesi e tante notti, troppe per un popolo che era abituato a svegliarsi al mattino ed ascoltare in tv chi era il nuovo Presidente.
Federico Fubini e Wolfgang Münchau scrivono sul Corriere della Sera l’articolo “Germania, il (non) leader d’Europa” l’8 giugno 2016, il cui paragrafo finale è il seguente
“La direzione dovrebbe essere l’unione politica. Ciò implica che gli italiani (e i francesi, e gli spagnoli) la smettano di parlare con magniloquenza del sogno di un Europa federale e accettino la realtà: la netta perdita di sovranità, o di controllo da parte delle élite locali, che qualunque unione politica implica. A quel punto l’Italia dovrebbe tenere la rotta e mantenere l’impegno anche quando i gruppi d’interesse all’interno del Paese gridano all’ingiustizia e accusano l’«Europa», non appena le loro rendite di posizione vengono sfidate. Se rifiutiamo l’unione politica, con le sue implicazioni reali, l’alternativa immediata è già chiara: una Germania che esercita l’influenza maggiore nell’area euro, che ci piaccia oppure no.”
In poche parole, ritenendo che la Germania non sia il leader dell’area euro, presentandolo come un bene (concordo) perchè finirebbe per distruggere l’euro (non ne sono convinto) e aggiungendo che è essenziale una unione politica (finalmente!), affermano però che questa unione debba accantonare il progetto dell’Europa federalista, ovvero il progetto che era stato pensato all’inizio della creazione dell’UE, e debba altresì togliere nettamente la sovranità agli Stati, che invece sarebbe un punto saldo nel progetto federalista che si era pensato e che man mano si è messo in un angolo. E si vuole far credere che se si rifiuta questa unione politica basata sulla cessione di sovranità dei Paesi e sul menefreghismo verso i gruppi d’interesse dei Paesi stessi, l’alternativa è una Germania leader dell’area euro (che non mi piace).
Io invece sono convinto che serva una unione politica che tenga conto delle differenze tra gli Stati e soprattutto tra le Nazioni e i popoli, che sia recuperato il disegno federale ormai dimenticato e che venga mantenuta la sovranità e il controlla da parte degli Stati. Perchè non si può basare uno Stato – come si vorrebbe che fosse l’UE – solo sull’economia e sulla finanza, quindi solo sulla moneta e sul mercato, ma bisogna creare unità politica basata sulle differenze e sul istituzioni che funzionino davvero ed abbiano poteri veri, bisogna porre delle regole e decidere ad esempio con chiarezza chi e come esercita il potere legislativo, bisogna decidere chi e come prende in mano la politica estera e la sicurezza, l’equilibrio tra gli Stati, la non intromissione in questioni interne e nella politica interna degli Stati, lasciando loro autonomia, e, per dirla alla Kissinger, decidere chi risponde al telefono quando si chiama l’Europa: cioè qual è il governo. Non ci si può arrendere a queste due alternative e regalare la propria sovranità ad istituzioni prive di poteri solo perchè ci infondono la paura che altrimenti la Germania diventerebbe il leader incontrastato dell’area euro. Perchè se la Germania lo diventasse poi davvero (come appare) si prederebbe anche il potere che abbiamo ceduto all’UE sotto forma di sovranità.
Pannella era uno degli ultimi grandi politici del novecento che ancora lottava, lo faceva “sui marciapiedi” e con quella retorica della Prima Repubblica che ormai si è persa.
Su molte battaglie dei Radicali non ero d’accordo, ma oggettivamente va riconosciuta in lui piena onestà, massima dedizione sia mentale sia fisica alla politica e al prossimo, assoluta coerenza e grande spirito di solidarietà. Era un politico ma non solo. Era anche un attivista, un oratore, un guerriero.
Era diverso. Ma proprio questa sua diversità ha influito nella politica, negli outcome (i risultati, come si dice in politologia), nel pensiero della gente. Ha introdotto l’uso dei referendum per dare voce a tutti, soprattutto ai più deboli, dimenticati dai grandi partiti, in particolare DC e PCI. Per fare questo si è messo in gioco in prima persona ma non semplicemente andando ospite a qualche programma tv, alle tribune politiche o concedendosi ad interviste. Non si è limitato a quello. Ha messo in gioco se stesso come corpo e come fisico, con scioperi della fame e della sete, con arresti, con atti fuori dagli schemi e che facevano sempre notizia, imbavagliato, sempre con cartelli sulle spalle e addosso, vestito da fantasma mentre accusa il regime “di associati per delinquere contro la costituzione”, arrivando addirittura a regalare in diretta tv dell’hashish ad Alda d’Eusanio su Rai2; perchè in questo modo poteva far notizia, e voleva dire far passare il messaggio, comunicare su larga scala, informare, far sapere con queste azioni eversive la posizione dei Radicali, il lancio di un nuovo referendum, il pensiero su un tema oppure un’accusa, un problema, una mancanza di diritti.
Il suo modo di agire in poche parole era disobbedire per far riflettere la società (la polis) su una legge da correggere, per far scoppiare una rivoluzione per abbattere uno Stato che considerava “fuorilegge”.
Come ho detto, non sono un sostenitore di tutte le battaglie e di tutte le proposte dei Radicali, anzi lo criticavo spesso quando iniziava un nuovo sciopero che gli consumava il corpo o quando parlava di alcuni temi sui quali ero contrario, ma ho l’onestà intellettuale per dichiarare che era un onesto provocatore altruista e un coerente rivoluzionario pacifista.
Voglio ricordarlo con una sua frase: “Noi rischiamo di vivere, non di morire. Rischiano di morire coloro i quali restano a casa” (invece di andare a votare i referendum). Ecco sintetizzata la sua vita, una vita spesa fino all’ultimo con dedizione, una vita di battaglie durante le quali si è sempre messo in prima fila. E per quelle battaglie ha martoriato il suo corpo, che ora può riposare in pace.
Le parole del Presidente russo Putin nel suo lungo discorso di fine anno: “È un uomo fuori dal comune e di talento, senza alcun dubbio… Non spetta a noi giudicarne i pregi, ma è il leader assoluto della corsa presidenziale” a cui fanno seguito quelle di ringraziamento del candidato alla presidenza USA 2017 Trump: “È sempre un grande onore ricevere complimenti da un uomo così rispettato, nel suo Paese e oltre… Ho sempre pensato che la Russia e gli Usa dovrebbe essere in grado di lavorare bene insieme per sconfiggere il terrorismo e portare la pace nel mondo per non parlare del commercio e di tutti gli altri benefici derivanti dal rispetto reciproco” sembrano andare nel verso di una pacificazione dei rapporti tra le due superpotenze mondiali.
Trump sta cercando di ristabilire buoni rapporti con la Russia, attraverso il dialogo e varie aperture, e Putin gradisce: “Come possiamo non dare il benvenuto a ciò? Naturalmente gli diamo il benvenuto”. Con lui Presidente USA sicuramente i rapporti potranno essere più stretti e si potranno raggiungere intese quasi impossibili con un Presidente democratico, sia per quello che ha fatto Obama (ad esempio le sanzioni alla Russia e la conduzione della guerra in Siria) sia per le dichiarazioni di Hillary Clinton (che dovrebbe essere la candidata per i democratici), che ha definito l’operato di Putin in Crimea simile a quello di Hitler nella Seconda Guerra Mondiale.
Dopo anni nei quali non si può dire che le relazioni tra Russia e USA siano state pacifiche e strette, questo sembrerebbe essere un primo passo verso un processo di avvicinamento, che potrebbe finalmente porre davvero fine a una Guerra Fredda nell’ultimo periodo combattuta a suon di dichiarazioni e sanzioni, senza contare alcuni fatti che hanno causato problemi seri di diplomazia e che sono o sembrano essere collegati con gli USA (ad esempio quando sono coinvolti suoi alleati).
Credo che solo la vittoria di un repubblicano possa portare i due Paesi a rapporti molto più vicini di quelli che la storia ci ha tramandato e di quelli che oggi si possano pensare; e tra tutti i candidati, viste le dichiarazioni di colui che considero l’uomo più potente del mondo, Trump risulta essere l’uomo giusto perchè questo processo dalle conseguenze importantissime quanto impensabili possa avvenire.
Oggi si vota, per la prima volta, al secondo turno delle elezioni dell’Argentina. La situazione politica è complicata, con i kirchneristi del Fronte per la Vittoria chiamati dalla stampa e conosciuti per consuetudine “peronisti”che supportano Antonio Scioli e si collocano alla sinistra del centro-sinistra, assieme a quello che rimane del Partito Giustizialista (peronista) e cioè della sua corrente di sinistra; il suo sfidante, l’imprenditore che è riuscito nell’impresa di portare i peronisti/kirchneristi al ballottagio, è Mauricio Macri, ed è supportato da Cambiemos, la grande coalizione al cui interno ci sono tre partiti, uno per ogni schieramento: la Coalizione Civica ARI di centro, la Unione Civica Radicale di centro-sinistra e la Proposta Repubblicana di centro-destra che è uno dei prodotti della scissione del Partito Giustizialista nel 2003 durante il suo passaggio dalla destra alla sinistra (dal 1947 al 1973 era stato di centro…). Ma l’uomo decisivo – il peso che determina dove penderà la bilancia – è Sergio Massa, ex capo di gabinetto della Presidente uscente Cristina Kirchner nel suo primo governo e che fa parte del peronismo e del centro-destra, allontanatosi dalla politica della Kirchner e quindi ritenuto più vicino a Macri nel secondo turno, anche debitamente al nome del partito – il Fronte Rinnovatore – che però fa parte del Partito Giustizialista. Il 21% di Massa è fondamentale per la vittoria di oggi, e in base alle indicazioni e alla linea politica può ribaltare il 37% a 34% che già è un risultato straordinario per Macri dopo 12 anni di kirchnerismo e i sondaggi che ne indicavano una ri-conferma al primo turno. Se davvero gli argentini vogliono cambiare, se vogliono rinnovare, Macri può vincere.
Sia Scioli sia Macri provengono da famiglie italiane del sud Italia, il primo è Governatore della Provincia di Buenos Aires al secondo mandato mentre il secondo è stato per due mandati consecutivi e negli stessi anni il Capo del Governo della Città di Buenos Aires. Proprio nella provincia di Buenos Aires, che conta il 38% dei votanti dell’interna Argentina, i kirchneristi hanno incredibilmente perso e questo è un segnale che indica che il kirchnerismo ha perso molto sostegno.
Se poi si va a dare un’occhiata online, spazio diventato ormai fondamentale per la comunicazione politica e dove la gente può informarsi quando vuole e in maniera quasi gratuita, si può notare che Scioli non ha nè un account Facebook nè Twitter e neppure un sito internet, mentre Macri ha un sito progettato bene per una campagna elettorale, con le informazioni essenziali, chiaro, semplice e diretto, e conta 1,8 milioni di followers su Twitter e 2,8 milioni su Facebook, dove sorprendono le centinaia di migliaia di “mi piace” che riceve ogni suo post. Calcolando che l’Argenitna ha 40,5 milioni di abitanti e facendo un paragone con le pagine di politici italiani, europei e internazionali, si può vedere come l’entusiasmo che Macri porta nelle piazze sia giornalmente ampliato e continuato dai molteplici messaggi in rete. Non c’è dubbio che Macri ha strutturato una campagna elettorale online e sui social nettamente migliore e che li padroneggia bene e con costanza, e nel 2015 questo è importante. Sono differenze che possono fare la differenza.
Vedere al Meeting di CL anche ex comunisti, gente vicina alla sinistra e renziani, al netto della curiosità di andare a vedere il Presidente del Consiglio, è la conferma che non ci sono più ideologie, non c’è più politica, non c’è più serietà, i partiti pur di prendere voti si rinnegano giorno dopo giorno, colgono solo ciò che fa comodo, parlano solo di ciò che conviene. La gente va a seguire Renzi per vedere uno show, non ascoltare un discorso intelligente bensì pieno di retorica e battutine, non perché mossa da identificazione nelle sue idee ma per salutarlo e sperare di ricevere un secondo di attenzione, non perché propone egli qualcosa di condivisibile ma perché è simpatico… Poi ci chiediamo perché c’è bassa affluenza e distaccamento dalla politica: perché non c’è politica, c’è solo lo spettacolo imbarazzante e ridicolo di qualche politico-attore che ha rovinato il dibattito politico rispetto alla prima Repubblica. Non che negli anni ’60 e ’70 tutto funzionasse bene, anzi, ma sicuramente il dibattito aveva un altro spessore, i discorsi erano interessanti, gli interventi erano seguiti con passione. Ora invece tutto è finalizzato a ottenere i titoli di giornali e tv, e allora vai di retorica, di promesse fantasiose aggirando i veri problemi, parlando di tutto tranne che di politica, puntando al consenso più che alle proposte.
Un esempio della degenerazione è il M5S, un partito che basa il suo programma politico nell’antipolitica, nel voler mandare a casa tutti per prendere così il potere; un partito che ha un segretario che nessuno conosce, neanche tanti iscritti al Movimento scommetto (mentre il vicesegretario è conosciuto per essere il nipote di Beppe Grillo…). Infatti tutto è gestito, a livello mediatico, da un comico, che è il megafono del partito e se ne guarda bene dal venire candidato per poter così mantenere il suo ruolo di indignato e “sollevatore di masse”. Così si predica la demagogia, si insultano le istituzioni bramando di entrarci, altro che aprirle come una scatoletta di tonno!
Tra tutta questa pochezza, ci sono giovani che devono decidere chi e cosa votare, ma molto spesso o non vanno alle urne o non sanno chi sono i candidati e cosa propongono. Per forza: 2 dei 3 grandi “politici” che stanno tenendo in piedi il dibattito politico sono un comico e un attore mancato, che a volte attaccano e altre volte copiano l’unico che ha delle proposte e che fa politica, Salvini. I due possono essere simpatici o dire delle cose che riscontrano consenso, ma un conto è giocare a spararla più grossa, un altro è pensare a delle soluzioni. L’affluenza aumenterà quando la proposta e il dibattito politici saranno più seri e credibili, ma anche più chiari; altrimenti gli elettori perderanno la bussola e quando saranno delusi anche del voto di protesta dato a Grillo staranno definitivamente a casa e sarà difficile recuperare la credibilità. Un primo rischio è l’inizio del 2017, quando (chi si ricorderà) si accorgerà che Renzi non avrà cancellato IMU e TASI, ma solo cambiato il loro nome o aumentato altre tasse.