L’autonomia differenziata attua la Costituzione: nessun passo indietro!

L’autonomia differenziata attua la Costituzione: nessun passo indietro!

In questi giorni il tema dell’autonomia regionale è tornato, finalmente, al centro dell’attenzione e del dibattito pubblico. L’incontro di mercoledì tra il ministro degli Affari regionali Mariastella Gelmini e alcuni Presidenti delle Regioni del Nord, compreso quello del Piemonte – Alberto Cirio – è un buon segno per la ripresa del processo di regionalizzazione, previsto sulla Carta ma ad oggi mai veramente attuato.

La forma di Stato prevista dalla Costituzione, infatti, è quella del regionalismo differenziato. A dirla tutta, tende a un federo-regionalismo sul modello spagnolo, consentendo in principio il federalismo fiscale, poi epurato dalla riforma del Titolo V nel 2001. Eppure, l’attuazione della Costituzione in materia è andata sempre eccessivamente a rilento: prima per il decentramento amministrativo e la definizione delle entrate tributarie regionali, previsti dagli artt. 5 e 118 della Costituzione ma avvenuti soltanto con la legge 16 maggio 1970, n. 281; poi per l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario, facoltà prevista dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione così come introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, ma rimasto ancora inattuato. Il risultato è che, ad oggi, il regionalismo differenziato esiste già (tra Regioni a Statuto speciale) ed è previsto anche per quelle a Statuto ordinario, le quali ora comprensibilmente ne fanno richiesta.

Il ddl Gelmini interviene proprio sulla base dell’art. 116, terzo comma, trovando pertanto fondamento nella Costituzione e nel nostro ordinamento giuridico. Per questo motivo, ma non solo, le critiche e le resistenze alla legge proposta appaiono dunque come il tentativo di restare ancorati a un passato che oltre ad essere inefficiente, non rispecchia neppure l’intenzione dei padri costituenti. Si rileva facilmente la contraddizione di chi si oppone all’applicazione di un principio costituzionale (artt. 5 e 116 solo per citare i più significativi) facendo appello e richiamandosi ad altri. Ancora maggiore incoerenza è palesata nel registrare come le sollevazioni al ddl provengano in larga misura da quella sinistra che costituisce storicamente lo schieramento più propenso al decentramento amministrativo e al quale fanno riferimento la maggior parte dei partiti autonomisti, federalisti e indipendentisti d’Europa (vedasi in Catalogna, Paesi Baschi, Scozia…).

Entrando nel merito della legge, essa definisce le modalità procedurali e i principi generali per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il procedimento per l’approvazione delle intese tra Stato e Regione prevede che l’atto di iniziativa sia deliberato dalla Regione, la quale deve avere i conti in ordine – smentendo e scongiurando il paventato rischio che si possano avere 20 Regioni a Statuto speciale – e si articola in diversi passaggi, che comprendono il parere della Commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali. Tale procedura riconosce sia un grande coinvolgimento del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Regione, sia un ampio margine di intervento del Parlamento, con le Camere che deliberano infine a maggioranza assoluta.

Non trovano riscontro nella realtà, invece, le preoccupazioni circa frammentazioni e divari territoriali: da una parte, l’art. 3 della legge prevede come condizione necessaria per il trasferimento delle funzioni e delle corrispondenti risorse una previa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (i cosiddetti LEA) in materia di sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico locale, con riferimento alla spesa in conto capitale; dall’altra, l’art. 4 prevede che le risorse assegnate alle Regioni assieme alle funzioni siano determinate dalla spesa storica sostenuta dalle amministrazioni regionali. Significa che le Regioni che chiedono l’autonomia differenziata saranno incentivate ad efficientare l’esercizio delle funzioni trasferite e che al contempo non potrà avvenire il trasferimento dei fondi relativi alle materie per le quali non sono stati preventivamente definiti i LEA. Si prevede, inoltre, il superamento della spesa storica attraverso la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard. Tradotto: inizialmente, a nessuna Regione viene dato più di adesso e a nessuna viene tolto nulla, successivamente si crea una maggiore eterogeneità dei costi con relativi risparmi per lo Stato. Con la differenza che, gestendo a livello regionale i fondi, si potranno investire meglio sul territorio, garantendo gli stessi servizi ora in capo allo Stato con responsabilizzazione e un potenziale risparmio, liberando di conseguenza risorse economiche per altri interventi. Altro che “secessione dei ricchi”, si tratta piuttosto di applicare una visione federale che premia le Regioni virtuose e sia da stimolo alle altre per permettere un miglioramento del sistema.

L’auspicio, dunque, è che si proceda celermente e con coraggio su questo testo, apportando eventualmente sì qualche limatura migliorativa, ma mantenendo immutati gli elementi principali e le finalità, senza operare stravolgimenti né tantomeno fare passi indietro. L’hanno chiesto milioni di cittadini, chi attraverso i referendum del 2017 chi attraverso gli eletti negli enti locali. L’ha chiesto la Regione Piemonte a fine 2019 tramite un dossier inviato al Governo e con una deliberazione del Consiglio regionale del Piemonte contenente la richiesta del trasferimento di oltre 100 funzioni attualmente in capo allo Stato secondo tutte le 23 competenze previste dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Il processo è stato sostenuto dal Comune di Biella con l’approvazione, nel 2020, dell’ordine del giorno a favore dell’autonomia differenziata del Piemonte: un voto importante sia nell’ottica del coinvolgimento degli enti locali, così come previsto dalla legge, sia perché conferma la provenienza “dal basso” ovvero dai territori di tali richieste.

Saranno quindi i cittadini che pagano le tasse a valutare come vengono spesi i soldi da chi amministra quel territorio e, dall’altro lato, gli amministratori a spendere in modo accorto e mirato i fondi consapevoli di essere soggetti a una verifica doppia: statale e locale. Un passo importante verso il vero federalismo che significa maggiore efficienza dell’azione amministrativa. Un passo avanti. Nessun passo indietro!

La ricchezza e l’identità dei territori possono essere apprezzate solo con il Federalismo

La ricchezza e l’identità dei territori possono essere apprezzate solo con il Federalismo

I liberi Comuni e le identità dei territori sono la ricchezza della civiltà del nostro Paese. Ad affermarlo è il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella nota per i 50 anni dalle prime elezioni regionali. Il Capo dello Stato ricorda poi che la Repubblica è nata “nel rifiuto del carattere autoritario e centralista dello Stato, inasprito dal regime fascista”, per cui “il principio di autonomia, delle Regioni e degli enti locali, è alle fondamenta della costruzione democratica, perché appartiene al campo indivisibile delle libertà e costituisce un regolatore dell’equilibrio costituzionale”.

Queste parole sono molto importanti in primis per gli amministratori locali e riportano al centro dell’attenzione lo storico tema dell’autonomia, che viaggia in parallelo con responsabilizzazione politica e buon governo del territorio, perché gli enti locali – e in particolare i Comuni – sono le istituzioni più vicine ai cittadini e che meglio possono risolvere i problemi. In questo periodo di emergenza coronavirus ne abbiamo avuto prova con le diverse risposte alle difficoltà causate dalla pandemia: mentre i territori si sono subito attivati per far fronte alle prime criticità, da Roma arrivavano indicazioni contrastanti, linee guida tardive, aiuti economici insufficienti e spesso dpi inutilizzabili, per non parlare dell’esperienza biellese della ripartenza delle aziende tessili…

La fine del lockdown riporta l’autonomia di grande attualità e la gestione del coronavirus ne ha accentuato la necessità. Le dichiarazioni del Presidente Mattarella lo confermano. Soltanto il ministro per il sud Giuseppe Provenzano continua a sostenere che vada rafforzato lo Stato, quello stesso Stato che in 9 anni ha tagliato 37 miliardi di euro alla sanità. Ma invece di apprezzare il lavoro fatto dalle Regioni, come in Piemonte dove i posti letto in terapia intensiva sono stati raddoppiati e quelli in semi-intensiva triplicati rispetto alla situazione che la giunta Cirio ha ereditato, il ministro Provenzano ritiene che si debbano “rafforzare i presidi centrali”: si riferisce a quelli che ci hanno consegnato mascherine non a norma o a quelli che hanno redatto disposizioni a volte incomprensibili e altre in contrasto tra loro?

In una intervista rilasciata su Il Messaggero mercoledì 10 giugno, lo stesso ministro torna sulla possibilità di rivedere il Titolo V della Costituzione ma, in contrasto con le parole del Presidente Mattarella, per introdurre una clausola di supremazia dello Stato. Al contrario, caro ministro, la riforma del Titolo V dovrà realizzare finalmente il regionalismo differenziato così come previsto dall’art. 116, terzo comma della Costituzione, nell’ottica del conseguimento della forma di Stato che da sempre si addice meglio al nostro Paese ma che non si è mai avuto il coraggio di istituire: il Federalismo. Un Federalismo non solo fiscale e amministrativo, ma anche politico e identitario: solo in questo modo si potrà davvero apprezzare la ricchezza di ogni territorio, dando piena attuazione all’art. 114 della Costituzione che stabilisce che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.