Se Twitter può silenziare il Presidente degli USA pensa cosa potrebbe fare a te

Se Twitter può silenziare il Presidente degli USA pensa cosa potrebbe fare a te

Per il mio percorso di studi, non sono solito parlare di democrazia né – dall’altra parte – di una sua minaccia o di azioni anti-democratiche, in modo semplicistico. Ma che Twitter abbia bloccato in modo permanente il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump è un comportamento da regime totalitario. Lo è non solo perché mina il pluralismo nell’informazione e la possibilità di formarsi una propria opinione quanto più possibile liberamente, che per il giurista e politologo Norberto Bobbio è uno dei 6 universali procedurali, ovvero i principi necessari affinché un sistema politico possa essere considerato democratico, ma perché ha lo stesso fine di omogeneizzare il pensiero attraverso l’eliminazione di qualsiasi messaggio indesiderato, proprio come nell’URSS bolscevica e negli altri totalitarismi.

Il problema di fondo è sostanziale e pone delle questioni complesse che non mi pare siano state colte da tutti, dal momento che vedo esultare per l’azione alcuni dei maggiori difensori della democrazia.

Possiamo permettere che società private – ma con una importante funzione pubblica e che esercitano un controllo pressoché monopolistico – possano silenziare un capo di Stato? Ciò che è avvenuto è che l’amministratore delegato di un’azienda – dopo aver ricevuto una lettera da 350 dipendenti (su oltre 4.600) – ha deciso di sospendere l’account di Donald Trump – legittimato dal voto elettorale – arrivando persino a cancellare alcuni post dell’altro account, quello governativo dell’attuale Presidente in carica. Ma non è finita qui: contemporaneamente venivano eliminati decine di migliaia di profili di sostenitori di Trump, bloccato anche su Facebook, YouTube e Instagram, e l’applicazione alternativa Parler, dove alcuni sono migrati per poter comunicare senza censura, è stata prima oscurata, poi cancellata da Apple, Google e Amazon e infine messa offline. In questo modo, non vengono rimossi i contenuti considerati non conformi alle norme, ma si impedisce alla più alta carica pubblica della Nazione nonché ad una delle istituzioni più importanti del mondo di poter comunicare in qualunque social direttamente con il popolo senza i filtri della stampa e dei media. Se non è una limitazione – sia di chi informa che di chi riceve l’informazione – di diritti democratici e un vulnus democratico questo…

Dirsi d’accordo a tutto ciò significa accettare che un privato possa censurare lo Stato (il Presidente rappresenta lo Stato), che alcuni dipendenti di un colosso informatico possano impedire ad un Presidente eletto da milioni di cittadini di poter esprimere le proprie idee, che possa essere un servizio a stabilire se delle parole siano incitamento all’odio e non la giustizia, quindi che le norme di un’azienda siano al di sopra del legislatore, della legge statale e financo dei pilastri della democrazia. Norme, tra l’altro, che Trump non ha violato nei post incriminati. Contrariamente, infatti, sarebbero stati eliminati, invece sono soltanto stati contrassegnati come tante altre volte. L’accusa di aver incitato alla violenza non sta in piedi sia per i contenuti dei tweet, dove più volte ha invitato i manifestanti a restare pacifici, sia perché sarebbe avvenuta in diretta tv e quindi avrebbero dovuto oscurarlo su ogni media (anche se non ha mai incoraggiato ai disordini che sono successivamente avvenuti, anzi in chiusura di comizio ha esortato i suoi sostenitori a “marciare verso Capitol Hill per applaudire i nostri bravi deputati”). Ma allora, se le motivazioni sono le stesse di sempre, come mai Trump è stato sospeso permanentemente solamente adesso e non prima? Semplice: perché temevano che in quel caso sarebbe stato rieletto. Ma ora che il leader è indebolito è l’occasione giusta per impedirgli di fare opposizione democratica alla nuova presidenza con l’unico mezzo a disposizione per comunicare senza filtri (della stampa avversa) ai suoi elettori.

Il sultano turco Erdogan che per il suo disegno di islamizzazione della società turca ha riconvertito l’ex basilica cristiana di Santa Sofia in una moschea, il sanguinario Maduro che affama e reprime i venezuelani, l’ayatollah iraniano Ali Khamenei che invoca lo sradicamento di Israele definendolo un “cancro” e il dittatore nord-coreano Kim Jong-un possono invece continuare a postare indisturbati, senza che Twitter, Facebook e le altre multinazionali di Big Tech si degnino neanche di segnalare i loro messaggi. I fact checkers non si sognano nemmeno di controllare le proclamazioni e le teorie del governo cinese. Se gli account dell’ISIS non li avesse disattivati Anonymous, poi, sarebbero ancora perfettamente attivi, e chissà quanti ce ne sono ancora aperti… Si vede che Jack Dorsey e Mark Zuckerberg erano impegnati a leggere cosa scriveva Trump, oppure che non li ritengono inneggiare all’odio e alla violenza. Tutti ancora liberi di pubblicare, tranne Trump, trattato peggio dei dittatori e dei tagliagole dello Stato Islamico che, come noto, pone una grande cura (e molti fondi) alla propaganda proprio su questi social per fare proselitismo.

Ma il disprezzo e l’avversione nei confronti di Trump non può essere una giustificazione per la sua soppressione: oggi tocca a lui, ma domani potrebbe toccare a chiunque. Se hanno potuto fare questo al Presidente degli Stati Uniti, immaginatevi cosa possano fare a voi.

Midterm: l’effetto Kavanaugh spinge il GOP alla conferma del Congresso

Midterm: l’effetto Kavanaugh spinge il GOP alla conferma del Congresso

Dopo il voto del Senato e la cerimonia di investitura di Brett Kavanaugh a giudice della Corte Suprema, numerosi analisti hanno ipotizzato che la spaccatura tra Democratici e Repubblicani dopo le accuse di violenze sessuali nei suoi confronti potessero spingere l’elettorato Dem ad andare a votare con maggiore slancio alle elezioni di midterm del 6 novembre. L’effetto del post Kavanaugh, secondo le teorie più accreditate, dovrebbe alimentare l’attesa blue wave che permetterebbe ai Dem di riottenere il controllo del Congresso o perlomeno della Camera dei rappresentanti. Ma sarà davvero così? Secondo l’analisi dei sondaggi non parrebbe, anzi tutto tende alla conclusione che la vera spinta della vicenda Kavanaugh abbia rafforzato i candidati GOP, aumentando le possibilità di Trump di mantenere la maggioranza sia al Senato sia alla Camera.

Una prima avvisaglia sarebbe dovuta arrivare dal seggio per il Senato del Tennessee, passato dal +5% Dem al +18% GOP mentre si credeva che l’endorsement di Taylor Swift avesse incentivato gli elettori Democratici ad iscriversi per il voto. Invece, dopo l’investitura di Kavanaugh lo Stato ha switchato, come si dice in gergo elettorale, ovvero è passato da tendente Dem a tendente GOP. Lo stesso è avvenuto in Missouri e Florida, mentre nelle ultime ore la candidata McSally (R) ha compiuto il sorpasso sulla Sinema (D) in Arizona. Parallelamente, il partito Repubblicano ha aumentato il proprio margine di vantaggio in Texas e North Dakota. Questo quadro porta all’attuale previsione del risultato delle elezioni di midterm per il Senato ad un 23-12 per i Democratici, che però non deve ingannare: dei 35 Stati che andranno al voto, 26 erano Dem e soltanto 9 GOP. Questo vuol dire che Trump otterrebbe 3 seggi in più al Senato spostando l’equilibrio attuale di 51-47 a 54-46, rafforzandosi. Con questi numeri, il partito Repubblicano si deve concentrare (quasi) solo sui seggi della Camera.

Qui i giochi si fanno più duri per Trump. Tuttavia, dopo l’approvazione della nomina di Kavanaugh, parecchi distretti congressuali sono passati da blu a rossi. Gli ultimi più eclatanti, in ordine di tempo, sono Kansas 03, New Jersey 03, Minnesota 08, Florida 26, New York 22 e West Virginia 03. Nel distretto congressuale KS03 si è passati dal +6% Dem del 3 ottobre al +3% GOP del 5 ottobre, il giorno in cui è iniziata la discussione al Senato per la conferma della nomina di Kavanaugh. Nel NJ03, il 27 settembre i Dem conducevano per 10 punti percentuali, mentre il 16 ottobre erano i Repubblicani avanti di 2 punti. Nel MN08 si è addirittura passati dal +1% Dem del 4 ottobre in eredità dal 13 settembre, al +15% GOP del 16 ottobre in un sondaggio Siena Research per il NYT. Il FL26 è tornato tendente rosso dopo essere passato blu il 21 settembre: il 5 ottobre i Democratici erano ancora davanti di 2 punti percentuali, ma il 16 ottobre un nuovo sondaggio ha riportato in testa i Repubblicani anche se per un solo punto percentuale. L’ultimo sondaggio per il NY22 risaliva al 30 agosto, quando i Democratici primeggiavano per 2 punti percentuali, ma una nuova inchiesta del 17 ottobre rileva il sorpasso dei Repubblicani anche qui di un punto percentuale. Infine, i Repubblicani si riprendono anche il WV03: assegnato ai Democratici dal 21 settembre (+4%), torna ora verso il GOP secondo un sondaggio Monmouth (+3%).

Midterm 2018 red wave

Ovviamente, non ci sono solo distretti congressuali che passano dal tendente Dem al tendente GOP, e ne rimangono molti non soltanto Toss Up (in bilico), ma addirittura che vedono candidati Democratici in vantaggio in distretti dove dovrebbero vincere i Repubblicani. Un esempio su tutti per i primi è il Nevada 04 (NV04), ballerino tra rosso e blu e che infatti è passato dal +4% GOP del 13 ottobre al +2 Dem del 16, smentendo perlomeno qui un effetto Kavanaugh a favore di Trump. Per i secondi, emblematico è il caso dello Utah 04 (UT04): nello Stato che per il seggio del Senato vede l’ex candidato alla presidenza Romney (R) con un vantaggio che sfiora il 40%, in questo distretto congressuale l’uscente (incumbent) Repubblicano ultimamente sta faticando a mantenere il seggio e per ora la sfida è data “tie”, come si suol dire in presenza di un pareggio nei sondaggi.

Queste variazioni, comunque, dimostrano che non siamo in presenza di una blue wave, anzi l’effetto Kavanaugh ha causato quella che si potrebbe definire una contro-red wave: dopo il 7 ottobre – il giorno della cerimonia di investitura di Kavanaugh – i candidati repubblicani hanno recuperato terreno in molti distretti congressuali chiave, spostando la bilancia da una possibile rimonta blu ad una ulteriore, e scioccante, onda rossa negli Stati più incerti e nei quali ci si gioca la Camera. Secondo le mie proiezioni attuali, i Repubblicani vincerebbero infatti 41 distretti chiave a fronte dei 25 Democratici​​. A pesare su questa debacle, c’è anche il fatto che i candidati Dem non riescono a portare via distretti congressuali ai Repubblicani con la stessa intensità, e continuano a restare dietro in Arizona 02 (AZ02) e Florida 27 (FL27), due distretti con candidati uscenti Dem. Il GOP, invece, nonostante le teorie (a quanto pare smentite) su Kavanaugh, ha continuato a “rubare” distretti colorando la mappa ancora più di rosso: ad ora, secondo gli ultimi sondaggi, i Democratici avrebbero appena la maggioranza alla Camera con 218 rappresentanti (su 218 richiesti, essendo 435 i membri), mentre i Repubblicani ne otterrebbero 214. Quelli che rimangono Toss Up sono 3 (CA10, IA03 e UT04) e diventano determinanti per Trump se vuole mantenere la maggioranza anche alla Camera. Intanto, Kavanaugh gli ha dato una mano.

 

Articolo apparso per la prima volta su https://mondointernazionale.com/

La stampa ammette non aver capito nulla di Trump: i veri incompetenti sono loro

La stampa ammette non aver capito nulla di Trump: i veri incompetenti sono loro

Dopo averlo demonizzato ed insultato, ora alcuni giornalisti iniziano a pensare di essere loro a non aver capito nulla e ad aver raccontato balle su Trump. Lo fa persino Federico Rampini su La Repubblica di ieri: “il tempo passa ed è almeno da un anno e mezzo che abbiamo torto”. Già, ma in quell’anno e mezzo è stato gettato fango prima sul candidato Presidente e poi sul Presidente della prima potenza mondiale, soltanto perché – per dirla alla Galli della Loggia – aveva idee ritenute sbagliate (o meglio, che non piacevano alle élite politiche e mediatiche) e quindi ciò bastava per definirlo inconfutabilmente antidemocratico.
Ma il tempo passa, e l’economia interna registra borse ai massimi storici e il Pil sopra al 3% di crescita, assieme alla disoccupazione più bassa dell’anno 2000.
La Corte Suprema, poi, ha autorizzato la piena entrata in vigore dell’Ordine Esecutivo 13780 – ovvero il cosiddetto ”muslim ban” – che vieta l’ingresso negli Usa ai cittadini di Somalia, Sudan, Iran, Siria, Yemen e Libia, dando ragione a Trump sulla legittimità dell’atto. Anche in questo caso, non si era capito o si è voluto cambiare il significato della decisione.
Appare chiaro che sono tutti episodi di post verità scientificamente prodotti da giornali che ora, scontrandosi con la realtà dei fatti, devono sommessamente e quasi con vergogna dichiarare che ad essere incompetenti sono in realtà loro.

La politica geostrategica di Trump tra Cina e Taiwan


Solo un ingenuo può pensare che l’incidente diplomatico tra il presidente eletto Trump e il presidente taiwanese Tsai Ying-wen sia davvero un incidente. Il team di Trump non è costituito da inesperti o incompetenti, come pure autorevoli giornalisti scrivono, ma da esperti strateghi conoscitori delle relazioni internazionali e da visionari che provano ad intraprendere una strada diversa in questa relazione, che soltanto alcuni studiosi di politica internazionale e geopolitica sembrano comprendere.

Risulta evidente che ovviamente non sia stato Trump a telefonare al presidente taiwanese – come erroneamente più volte riportato da autorevoli periodici – ma che al contrario la chiamata l’abbia ricevuta. Ma anziché proseguire sulla “one China policy” che prevede il riconoscimento di un Paese e due sistemi, per il quale solo la Repubblica popolare cinese è riconosciuta e solo con essa si possono avere contatti ufficiali, mentre la Repubblica di Cina (ovvero Taiwan) va bene sono per commerciare – preferibilmente armi – Trump ha alzato la cornetta, facendo saltare sulla sedia politici e diplomatici di tutto il mondo. Ma la sua giustificazione per la prima volta rende possibile porre al centro del dibattito internazionale la condizione di svantaggio di Taiwan, che si trova ad essere isolata dalla società internazionale, senza capire appunto “perché si possono stringere accordi con essa ma non dialogare?”

Questa strategia geopolitica di Trump e dei suoi consiglieri più fidati si lega con i rapporti che il magnate già intratteneva con quello Stato de facto e con la visita di Reince Priebus (presidente del partito Repubblicano e ora capo di Gabinetto di Trump) a Tsai Ying-wen avvenuta qualche mese fa. Ma andando più in profondità, risulta evidente che il fine è quello di tastare il terreno per provare a vedere le prime reazioni della Cina al tentativo degli nuovi USA made in Trump, che mirano a frenare l’avanzata cinese e la delocalizzazione delle imprese USA in Cina. Con questa risposta, Trump ha legittimato Taiwan e ha ammesso l’esistenza di un’altra Cina: quella di Chiang Kai-shek espulsa dall’ONU nel 1971, accusata di occupare un seggio illegale.

Infatti, tutto iniziò con la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite numero 2758 del novembre 1971, che stabiliva la Repubblica popolare cinese come unico interlocutore e unico rappresentante della Cina. Questa politica venne portata avanti dal Presidente Nixon e progettata da Kissinger, ed ebbe come conseguenza quella di creare le fondamenta per lo sviluppo economico e sociale della Cina. Quello stesso sviluppo che ora Trump vuole rallentare poichè mina le aziende e di conseguenza l’economia dell’America che vuole rendere Great Again, e per farlo deve innanzitutto indebolire il nemico numero 1.

Trump ha basato la sua campagna elettorale sul riportare lavoro e imprese negli USA, e nel trattenere quelle che vorrebbero andarsene, allettate da tasse più basse e minori costi derivanti dallo sfruttamento della manodopera. Ora ha trovato, nel Taipei che vuole riallacciare i rapporti con Washington in risposta alle ultime politiche del pre-Obama, un appoggio per minare lo status quo delle relazioni geostrategiche e provare a trarne vantaggio. 

D’altronde, cosa ci si aspettava? Il gioco dei nervi è appena iniziato, ancora prima dell’insediamento ufficiale. Tenetevi forte.

LA VITTORIA DI TRUMP TRA PERDENTI E DOMANDE

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9 novembre 2016. Non un giorno qualsiasi, non un anno qualsiasi. Ma il giorno e l’anno in cui è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti d’America Donald John Trump. Una vittoria inaspettata dalla maggior parte degli esperti e da chi non vive negli USA, tra wishful thinking e comunicazione altamente canalizzata, ma alla quale Trump credeva fin dall’inizio e ha creduto fino alla fine. Ma una vittoria che comporta anche 4 categorie di sconfitti:

La prima è quella dei mezzi di comunicazione mainstream, dei media facenti capo all’establishment, che vanno dai quotidiani alle tv, dai giornalisti ai conduttori passando per gli editorialisti. Sembravano i surrogati dei mezzi di campagna elettorale della Clinton. Tutti schierati per la Democratica, a tal punto che sembrava che alcuni articoli o editoriali fossero inviati direttamente dai campaign manager della Clinton ai media che poi li dovevano soltanto pubblicare sulle loro pagine. A questa squadra di mass media schierati per la Clinton, Trump è stato bravo a contrapporre i suoi social media, con una pagina Facebook da 12 milioni e mezzo di “mi piace” e video che raggiungevano 10 milioni di utenti. Con questi numeri che farebbero impallidire l’Huffington Post, il suo communication strategy team ha creato una contro-informazione tale da raggiungere più elettori delle testate giornalistiche più lette.

La seconda categoria racchiude le celebrities che hanno fatto l’endorsement per la Clinton e ne sono uscite miseramente sconfitte, con la prova che spostano zero voti e quindi non fanno la minima presa sul popolo. Anzi, a mio parere il fatto che chi (si) spendeva di più per la Clinton fossero grandi banche e star della tv o musicali ben lontani dai problemi della gente comune, abbia alienato a lei ulteriori fette dell’elettorato, irritati dal vedere che il suo appoggio avveniva in maggior parte da grandi giri di denaro.

Sono stati sconfitti anche i pregiudizi con i quali veniva visto Trump e che erano l’esatto contrario della realtà, montati ad arte dalla macchina del fango che andava a senso unico contro di lui, soltanto perché le sue opinioni e le sue proposte collidevano con la volontà del finto progresso dem-universalista.

Ma il vero sconfitto è l’anatra zoppa Obama, una delle maggiori cause umane della sconfitta della Clinton e soprattutto della vittoria di Trump. Un Presidente che si è speso moltissimo per la candidata Democratica, il che la rendeva agli occhi dell’elettorato – giustamente – molto debole. Ma anche l’artefice di una serie di provvedimenti che hanno causato e in alcuni casi aumentato il malcontento. Per non parlare del cavallo di battaglia di Obama, l’Obamacare: un vero disastro per molti americani che, dopo avergli creduto per due elezioni, hanno voltato le spalle alla sua eredità politica.

Ma dopo l’incredibile vittoria di Trump, sono due le domande che bisogna porsi, al netto di pareri personali o non, che si sono rivelati fallaci:

La prima è se si possa arrivare ad insultare in questo modo un candidato che qualche giorno dopo potrebbe diventare il Presidente di uno dei Paesi più importanti e potenti al mondo, soltanto perché esprime concezioni diverse dalle proprie e le idee in una maniera che non piace. Si può, cioè, insultare pesantemente (come ha fatto il vergognoso Robert De Niro) un potenziale futuro Presidente USA, che un domani potrebbe dover rappresentare l’unità della Nazione e tutti i cittadini? Per giunta definendolo maleducato, rozzo e volgare, salvo poi dirgliene di ben peggio (cane, porco, bastardo…)?

E quanta fiducia possiamo ancora avere nei sondaggisti? Partendo dal presupposto che dei mezzi di comunicazione non ne possiamo avere, perché palesemente pilotati al punto che invece di fare informazione scrivono articoli per indirizzare il pensiero del lettore al loro o verso chi servono, la domanda tragica e finale è: possiamo ancora fidarci di chi dovrebbe usare metodi scientifici ed è considerato tra i maggiori esperti della materia, a volte addirittura un guru, ma poi risulta sbagliare clamorosamente le previsioni delle quali era praticamente sicuro? E se è stato un errore, che può sempre avvenire per carità – tant’è che avevano lasciato un 6% di speranza a Trump (i più ottimisti un 15%) – in questo errore quanto c’è di sbagliato in calcoli in analisi e quanto invece di wishful thinking ovvero di auto convincimento che andrà tutto come si spera e si pensa anche se i dati dicono diversamente, o peggio quanto c’è di ritocchi, modifiche, aggiustamenti, tattica per spostare voti con i sondaggi e i soliti articoli?

Sono questi gli sconfitti e le domande che, a parer mio, ci portano all’uscita di una delle peggiori presidenze USA degli ultimi anni e di una gestione pericolosamente pilotata della comunicazione, e potrebbero portarci verso una maggiore democrazia in un Paese che democratico non lo è stato mai. Comunque la pensiate, lasciate lavorare il Presidente Trump.

Trump Presidente potrebbe porre fine alla Guerra Fredda

 

 

Putin e Trump

Le parole del Presidente russo Putin nel suo lungo discorso di fine anno: “È un uomo fuori dal comune e di talento, senza alcun dubbio… Non spetta a noi giudicarne i pregi, ma è il leader assoluto della corsa presidenziale” a cui fanno seguito quelle di ringraziamento del candidato alla presidenza USA 2017 Trump: “È sempre un grande onore ricevere complimenti da un uomo così rispettato, nel suo Paese e oltre… Ho sempre pensato che la Russia e gli Usa dovrebbe essere in grado di lavorare bene insieme per sconfiggere il terrorismo e portare la pace nel mondo per non parlare del commercio e di tutti gli altri benefici derivanti dal rispetto reciproco” sembrano andare nel verso di una pacificazione dei rapporti tra le due superpotenze mondiali.

Trump sta cercando di ristabilire buoni rapporti con la Russia, attraverso il dialogo e varie aperture, e Putin gradisce: “Come possiamo non dare il benvenuto a ciò? Naturalmente gli diamo il benvenuto”. Con lui Presidente USA sicuramente i rapporti potranno essere più stretti e si potranno raggiungere intese quasi impossibili con un Presidente democratico, sia per quello che ha fatto Obama (ad esempio le sanzioni alla Russia e la conduzione della guerra in Siria) sia per le dichiarazioni di Hillary Clinton (che dovrebbe essere la candidata per i democratici), che ha definito l’operato di Putin in Crimea simile a quello di Hitler nella Seconda Guerra Mondiale.

Dopo anni nei quali non si può dire che le relazioni tra Russia e USA siano state pacifiche e strette, questo sembrerebbe essere un primo passo verso un processo di avvicinamento, che potrebbe finalmente porre davvero fine a una Guerra Fredda nell’ultimo periodo combattuta a suon di dichiarazioni e sanzioni, senza contare alcuni fatti che hanno causato problemi seri di diplomazia e che sono o sembrano essere collegati con gli USA (ad esempio quando sono coinvolti suoi alleati).

Credo che solo la vittoria di un repubblicano possa portare i due Paesi a rapporti molto più vicini di quelli che la storia ci ha tramandato e di quelli che oggi si possano pensare; e tra tutti i candidati, viste le dichiarazioni di colui che considero l’uomo più potente del mondo, Trump risulta essere l’uomo giusto perchè questo processo dalle conseguenze importantissime quanto impensabili possa avvenire.